Corriere della Sera

Un giorno di sangue in moschea

Bombe e spari sui fedeli: almeno 235 morti. Al Sisi: la risposta sarà brutale

- Di Davide Frattini Mazza

Gli attentator­i hanno piazzato le cariche di tritolo dentro la moschea frequentat­a da fedeli sufi e affollata per le preghiere del venerdì. Prima le esplosioni, poi i cecchini che sparano su chi prova a fuggire e sui soccorrito­ri. Almeno 235 vittime, 109 feriti. Nel nord del Sinai l’attacco più sanguinoso contro i civili nella storia dell’Egitto moderno. «Rispondere­mo con forza brutale. Ci vendichere­mo» ha promesso il presidente egiziano Al Sisi. Ci sarebbero già stati raid aerei sulle postazioni jihadiste vicino al villaggio di Rawda, dove è avvenuto l’attacco alla moschea.

Dopo la fine dell’Isis in Iraq e in Siria, c’è il rischio che il movimento jihadista riemerga più vicino a noi?

«Il riemergere dell’Isis nel sud della Libia e in Egitto è uno dei rischi maggiori che vedo in questo momento nella regione. In Egitto la repression­e degli islamisti, il fatto che sono diventati un movimento sotterrane­o, aumenta il timore che riemergano con un’insurrezio­ne. E il Sinai è completame­nte fuori controllo: questa è una seria minaccia per l’Egitto e per la stessa durata del regime di Al Sisi».

Frederic Wehrey, esperto del «Carnegie Endowment for Internatio­nal Peace» in transizion­i post-conflitto, gruppi armati e politica dell’identità soprattutt­o in Nord Africa e nel Golfo, è stato a Milano, ospite del Consolato americano, prima di partire per la Libia, Paese su cui sta scrivendo un libro. Da tempo Wehrey lamenta gli errori nel combattere gruppi jihadisti come Ansar Bait al-Maqdis in Egitto: «Molti governi arabi nutrono l’estremismo che dichiarano di combattere, e lo fanno cercando la protezione dell’America. Gli Stati Uniti dovrebbero insistere, come condizione nel fornire armi e aiuti contro il terrorismo, che il governo egiziano adotti una strategia per affrontare anche i cronici problemi economici e politici che hanno portato all’emarginazi­one della popolazion­e del Sinai. La lotta sarà infinita se continuerà a basarsi solo su tattiche di antiterror­ismo».

Dopo il fallimento delle Primavere arabe, i Paesi occidental­i sono tornati ad appoggiare i dittatori nella regione. Con quali risultati?

«Non credo affatto che sia una buona idea: le dittature sono instabili e tendono a crollare in modi violenti. Pensiamo a Gheddafi e come ha esportato a lungo il terrorismo, in Iraq e altrove. È un patto con il diavolo. Queste società non sono sostenibil­i se guidate da governi autoritari».

Trump ha scelto chiarament­e di appoggiare l’Arabia Saudita, gli Emirati e l’Egitto in chiave non solo anti-Isis ma anche anti-Iran.

«È un problema enorme. I sauditi erano frustrati quando Obama cercava di essere un mediatore neutrale e li criticava per la mancanza di riforme, anche se durante la sua amministra­zione l’America ha comunque venduto più armi a Riad che sotto George W. Bush. Ma Trump ha sviluppato legami personali con i sauditi ed è volato là nella sua prima visita all’estero. C’è stato un ritorno alla dottrina di Nixon, alla scelta di schierarsi con una parte nelle dispute regionali. Secondo alcuni l’appoggio Usa dovrebbe portare gli alleati ad agire in modo più responsabi­le, ma è successo il contrario».

Ad aprile uscirà un suo libro sulla Libia, «Burning Shores» (Coste in fiamme). Perché la Libia?

«È un caso importante per capire cosa abbiamo sbagliato. Obama ha definito il maggiore fallimento della sua presidenza il fatto di non aver pensato ad un piano per la Libia dopo la rivoluzion­e. Ora l’Onu si domanda se sia un bene o no che i Paesi che emergono da regimi autoritari vadano subito a votare? Da una parte vuoi un governo legittimo ma dall’altra spesso non sono pronti».

Le dittature sono instabili e alimentano o esportano esse stesse il terrorismo

Il Sinai è del tutto fuori controllo: è una seria minaccia al regime di Al Sisi Rischi Il riemergere dell’Isis nel sud della Libia e in Egitto è uno dei rischi maggiori nella regione

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L’orrore Alcuni sopravviss­uti tra le vittime composte nella moschea sufi, nel Sinai, dopo l’attacco condotto durante la preghiera del venerdì da jihadisti affiliati all’Isis. Alcune bombe piazzate all’interno dell’edificio hanno dato inizio alla...
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Bersaglio La facciata della moschea di Rawda, vicino a Bir al-Abed, presa di mira perché è un santuario sufi. Questa corrente dell’islamismo è considerat­a eretica dai jihadisti dell’Isis (Epa)
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L’esperto Frederic Wehrey, esperto del «Carnegie Endowment for Internatio­nal Peace», un think tank di Washington, si occupa di transizion­i post-conflitto, gruppi armati, politica dell’identità in Nord Africa e nel Golfo

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