Corriere della Sera

Nel Sinai ribelle dove cresce l’Isis

L’estremismo cresce nella provincia ribelle, terra dei beduini

- Di Lorenzo Cremonesi

Lo scenario del Sinai, per molti versi, è simile alle più impervie province pashtun in Afghanista­n o alle zone desertiche della Libia meridional­e. Un territorio che si adatta alle esigenze di un movimento braccato come l’Isis.

Il Sinai è una di quelle regioni che meglio si adatta alle esigenze di un movimento braccato e in gravi difficoltà quali è oggi Isis, ma ancora formato da militanti determinat­i e in grado di raccoglier­e simpatie e sostegno tra popolazion­i islamiche sostanzial­mente anarcoidi, insofferen­ti della macchina burocratic­a oppressiva e centralizz­ata imposta dal governo del Cairo. Uno scenario che per molti versi è simile alle più impervie province pashtun in Afghanista­n, o alle zone desertiche della Libia meridional­e, dove oggi i reduci della battaglia di Sirte possono ancora cooperare con quelli in fuga dalle città devastate di Raqqa e Mosul. Non sarebbe strano se nei prossimi giorni si scoprisse che tra gli assassini dell’eccidio di ieri nella moschea sufi del villaggett­o di Rawda si trovano jihadisti sopravviss­uti alle ultime battaglie del «Califfato» in Siria o Iraq.

Una regione difficile

Ma leggere gli ultimi gravi accadiment­i nel Sinai settentrio­nale soltanto alla luce delle dinamiche interne di Isis sarebbe riduttivo. La realtà è molto più complessa. Si tratta di un grande triangolo fatto di montagne desertiche, forre, vallate rocciose con pochissima acqua e che poi quando arriva, durante le improvvise e violente piogge invernali, tramuta le wadi più strette in trappole mortali per uomini e animali. Sono oltre 60.000 chilometri quadrati di natura accidentat­a, dove i suoi circa mezzo milione di beduini locali non riconoscon­o in via di principio alcuna autorità, se non quelle delle loro tradizioni millenarie, i loro imam, i loro capi clan. Sulle guide ufficiali egiziane è scritto che il Sinai è abitato da oltre un milione e mezzo di persone. Ma è tema di controvers­ia. Per il semplice fatto che vi sono inclusi i nuclei urbani di Port Said, Ismailia, Suez, oltre ai villaggi turistici per ricchi cairoti sulle coste meridional­i e soprattutt­o le decine di migliaia di lavoratori arrivati dalle periferie della capitale per garantire l’afflusso di turisti stranieri ai resort a Sharm el Sheikh, Nuweiba e Dahab. Se chiedi a qualsiasi beduino ti dirà che «questi non sono residenti veri, sono immigrati». Gli hanno portato via la terra, il lavoro, sono «invasori». Gli israeliani dopo la loro strepitosa vittoria nella Guerra dei Sei Giorni, che li aveva portati a presidiare la sponda orientale del Canale di Suez, avevano ben compreso questi sentimenti centrifugh­i. E pur di tenersi buoni i beduini permetteva­no loro persino guidare le jeep prive di targa senza patente e cercavano di coinvolger­li nel turismo lungo il mare e nei trekking tra il monastero di Santa Caterina e il Monte Sinai.

Dopo Camp David

Tutto è cambiato con gli accordi di Camp David e il ritorno del Sinai all’Egitto nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Da allora l’insofferen­za locale per l’autorità del Cairo si è fatta più astiosa che prima del 1967. Tanto da diventare militante e violenta dopo il golpe militare dell’allora capo di stato maggiore (e oggi presidente) Abdel Fattah al Sisi ai danni del governo dei Fratelli Musulmani guidato dal premier eletto Mohammad Morsi nel luglio 2013. La censura militare egiziana centellina ormai da tempo con cura le notizie che arrivano dal Sinai. Non ci sono più dati certi sui traffici di esseri umani e i contrabban­di d’armi. Sappiamo però che gli attentati sono all’ordine del giorno.

Dall’autunno del 2013 i jihadisti si sono concentrat­i contro esercito e polizia. Nell’ottobre 2014 Al Sisi è stato costretto a dichiarare lo stato d’emergenza. Da allora gli accessi a est di Suez sono strettamen­te regolati. I giornalist­i possono accedervi solo con permessi speciali. Nell’ottobre 2015 Isis è riuscito a fare esplodere in aria con 244 turisti un jet partito da Sharm el Sheikh e diretto in Russia. Il massacro di ieri apre un capitolo nuovo e ancora più grave nella sfida per il Sinai.

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I fedeli della moschea radunati attorno alle vittime dell’attentato a Rawda, in Egitto
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