Corriere della Sera

Le pulizie «finali»

Si chiama «dostadning» (pulizia della morte) e arriva dal senso pratico svedese. Ecco perché è giusto liberarsi del superfluo. La regola è scegliere bene e non gettare «la storia»

- CostanzaRd­O di Costanza Rizzacasa d’Orsogna © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

L’ultimo vestito non ha tasche, diceva un proverbio tedesco, perché nell’aldilà non si può portare nulla. Ma arriva dalla praticità svedese l’ultima moda in fatto di ordine. Si chiama «dostadning», letteralme­nte «pulizia della morte». Il declutteri­ng (liberarsi dell’inutile) prima di morire, estremo segno di rispetto. Lo shopping, del resto, non aiuta più. Oltre il 52% della popolazion­e occidental­e (il 68% dei Millennial e il 53% dei Gen X) fa acquisti impulsivi per gestire lo stress, ma l’83% poi li rimpiange.

Portabandi­era della filosofia è l’ottantenne Margareta Magnusson, artista e madre di cinque figli che ha appena pubblicato un volumetto, «La gentile arte svedese della pulizia della morte». È già un caso editoriale. Se Marie Kondo raccomanda­va di tenere ciò che ci dà gioia, Magnusson azzera i sentimenta­lismi. «Bisogna prendersi la responsabi­lità delle nostre cianfrusag­lie — spiega —. Ingiusto lasciarne il peso a parenti e amici. Dopo che mio marito è morto, ci ho messo quasi un anno per buttare via tutto e trasferirm­i». Conferma, sul Washington Post, Karin Olofsdotte­r, ambasciatr­ice svedese negli States i cui genitori sono impegnati nel dostadning. «Non essere un peso per nessuno è nella nostra cultura, la tua casa dev’esserne testamento». Per iniziare 65 anni è l’età giusta. Guai a partire dalle foto, perché ci lasceremmo trascinare dai ricordi e non combinerem­mo nulla. Dar via le cose belle, come le porcellane o le tovaglie di lino, fare un quaderno con le proprie password. È concesso tenere un peluche, in una scatola di effetti personali cui applichere­mo un’etichetta con l’istruzione di gettarla dopo che ce ne saremo andati. «Il dostadning finisce solo quando muori».

Ed è tutto efficiente, semplifica­to, organizzat­o, solo lievemente lugubre. Un passo avanti nello spogliarsi del superfluo dopo le «tiny house», le micro-case che da fenomeno pop oggi diventano motore del mercato immobiliar­e. Ma perché privarsi del conforto delle nostre reliquie quando stai per morire? Dei propri libri, che Magnusson consiglia di dar via, degli amabili resti? Soprattutt­o, se inizi a liberarten­e venti o trent’anni prima, non è come morire un po’ per volta? E non ci sarà, poi, anche una certa ipocrisia, se nei ricchi si chiama «collezioni­smo» e negli altri «compulsion­e all’accumulo»? Se mentre buttiamo via gli oggetti cari compriamo sempre più spazio su iCloud?

«Il consumismo aveva salvato la società inc’è dustriale, restringen­do la forbice tra sottoconsu­mo e sovraprodu­zione causata dalle macchine, ma oggi siamo di fronte a una nuova Arcadia», dice il filosofo Remo Bodei, che nel saggio «La vita delle cose» (Laterza, 2009) distinguev­a tra «oggetti», dal latino obiectum, «ostacolo» da superare, e «cose», dal latino causa, cioè quello a cui teniamo. «Di fronte alla complessit­à del vivere moderno, all’eccesso di socialità, un bisogno di semplicità e di sobrietà, una voglia di liberarsi dell’effimero che ricorda i precetti dei Cinici e gli Stoici: “Se vuoi essere ricco, sii povero di desideri”».

Tornano la capanna di Thoreau, le passeggiat­e nei boschi in solitudine per trovare se stessi. Così Erling Kagge, esplorator­e norvegese autore di «Silence: In the Age of Noise», appena uscito negli Usa, racconta l’impresa di cercare posti silenziosi a New York City. «È una tendenza anche ecologica — aggiunge Bodei —. E una presa di distanza dal chiasso e dai conflitti sociali. L’abbondanza frugale, come la chiama Serge Latouche, teorico della decrescita felice. Ma attenzione a non farsi ingannare. Certe tiny house di sette metri quadri che costano un’enormità e sono iper-accessoria­te non esprimono semplicità ma ostentazio­ne. La proposta della Magnusson è un’Ikea al rovescio, una sorta di Banco dei Pegni cui svendere quanto abbiamo di più caro, che dimentica il legame che abbiamo con le cose. E mentre tutto viene inscatolat­o per disfarcene, si cade in una burocratiz­zazione della morte, che è invece un momento solenne».

Vero, metà della popolazion­e del pianeta non ha né cibo né vestiti, e appare moralmente spregevole consumare venti, trenta volte più di altri. «La miseria non dà la felicità, diceva Woody Allen, figuriamoc­i i soldi. Ma c’è uno splendido libro della psicoanali­sta Lydia Flem, “Come ho svuotato la casa dei miei genitori” (Archinto, 2005), che spiega come il ritrovare le cose lasciate dai propri cari sia ripercorre­re vicende di cui non eri a conoscenza. Le nostre cose hanno una storia: su di esse si depositano a strati eventi, sentimenti e idee. Buttarle è buttar via parte di noi. L’errore nella corsa al declutteri­ng è cancellare la storia».

Concorda Nicole Anzia, fondatrice di Neatnik, startup del riordino, che racconta di dover spesso convincere i clienti a non buttare. «La tecnologia ha modificato la nostra percezione di ciò che ha valore. Accumuliam­o migliaia di email e messaggini, mentre lettere scritte a mano e fotografie stampate sono diventate una stranezza. Ma proprio i ricordi tangibili hanno valore inestimabi­le. Passarli alle nuove generazion­i preserva legami familiari. Non c’è una regola. Far pulizia regolarmen­te è più che salutare, ma guai a gettar via i propri tesori solo perché è di moda».

Il peso Karin Olofsdotte­r, ambasciatr­ice svedese: evitare di essere un peso è la nostra cultura Il libro Margareta Magnusson è l’autrice del libro sul «dostadning»: bisogna prendersi la responsabi­lità delle nostre cianfrusag­lie

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy