ITALIANI GIGI PROIETTI
interrogarsi sulla figura del padre? «Perché è cambiato tutto», risponde lui, molto sicuro di sé, molto orgoglioso delle sue due figlie con cui, dice, è felice di aver costruito, con la maturità degli anni, «un rapporto eccellente». E cioè? «È cambiata l’organizzazione stessa del nucleo familiare e dunque è cambiata la figura del padre che in un altro tipo di famiglia rappresentava il principio di autorità: di autorevolezza e non necessariamente di autoritarismo beninteso. Hai voglia a dire famiglia nuova, famiglia allargata, famiglia multipla. Non è la stessa cosa. E infatti i padri sono insicuri, vacillano, sono incerti sul loro ruolo. Oggi se un professore rimprovera il figlio, i padri tendono a prendere le parti del figlio. Mio padre no, non faceva così. Avrebbe detto: “E io te do il resto”, con affetto, ma con un’incrollabile fiducia nel suo modello di educazione. Ecco, ieri il modello era quello di un’educazione verticale che si trasmetteva con la forza dell’esempio, oggi invece prevale un’educazione in cui tutto è orizzontale, un po’ piatto».
Il ricordo del padre
Proietti ritorna spesso sulla figura di suo padre, ne ricorda — senza saper dominare del tutto la commozione e il dolore di una perdita irrimediabile anche adesso che tanti anni sono trascorsi e l’anagrafe impone le sue condizioni — i modi e gli insegnamenti, il lessico e i silenzi. Il pudore: «Mio padre sapeva comunicare senza il cartello che spiega: guardate che sto comunicando. Comunicava con l’esempio, con le cose che faceva. Non aveva bisogno di tante parole, di prediche, di sproloqui verbosi. Sembrava un uomo riservato che non mette in piazza i sentimenti. Poi, a sorpresa, un giorno arrivava in bicicletta, con le mollette ai calzoni per non farli incastrare nei raggi, al teatro Brancaccio dove io facevo scuola di teatro, e offriva caramelle agli allievi: un modo silenzioso di comunicare affetto e attenzione. Per conoscere mio padre io cercavo di capire come descriveva se stesso negli aneddoti che raccontava agli amici. Anzi ero io stesso a chiedere a mio padre di raccontarli ancora, perché potevo cogliere ogni volta qualche sfumatura in più. Quando ormai mancavano pochi giorni alla sua morte, sono tornato dall’America dove mi trovavo per lavoro giusto in tempo per vederlo ancora vivo, e dal letto dell’ospedale lui si è quasi aggrappato a me per sussurrami, con un filo di voce, ma con dignità assoluta: “Ti ho aspettato”. Poche parole, ma che riassumono il senso di una vita e di un carattere», dice Gigi Proietti con gli occhi che gli si inumidiscono e la voce che si incrina, e perciò lui si accende una sigaretta e con la sua voce inconfondibile cerca di recuperare nella conversazione il registro comico, di cui, sul palcoscenico, è insuperabile interprete.
La via del teatro
«Che poi mio padre non capiva se facevo sul serio quando ho cominciato con il teatro. Anzi, non lo capivo nemmeno io». Lui, continua Proietti, «era un uomo del popolo, voleva per me quello che allora si diceva un lavoro stabile, un “impiego”, il posto fisso, il pezzo di carta che, declamava, “o piove o tira vento”, tu potevi avere in tasca come garanzia e certezza nella vita». E come prese la sua vocazione teatrale? «Vocazione? Non direi. Ero studente di Giurisprudenza a Roma, ma non è che stessi procedendo speditamente, diciamo così. Mi iscrissi allora al Cut, il Centro universitario teatrale, ma senza alcuna preparazione alle spalle. Venivo dal Tufello, fine anni Cinquanta, e il teatro non si sapeva nemmeno che fosse, al massimo qualche cinemetto o qualche puntata all’Ambra Jovinelli per l’avanspettacolo. Feci un provino, ricordo che nella commissione c’era il grande Arnoldo Foà, e quando in un test dovetti indicare quale fosse l’autore teatrale per me imprescindibile, tra i vari Shakespeare, Sofocle e Molière, scelsi nientedimeno che Giuseppe Giacosa, che insieme a Pirandello era l’unico che conoscessi perché a casa di un amico avevo visto la sera prima in tv il suo Come le foglie. Per dire. Beh, poi, certo, c’era il jazz».
Proietti jazzista? «Per guadagnare qualche soldo cantavo in un complesso che cambiava spesso nome, il più fortunato fu “Gigi e i soliti ignoti”, e dove suonavo il basso col botto». Col botto? «Si diceva così, quando si picchiavano forte, col botto, le corde con la mano destra. Per annunciare la nostra presenza a un veglionissimo di Capodanno, sulla locandina scrissero con enfasi di “Gigi Proietti dalla voce brillante ritmico-moderna”. Che significava? E chi lo sa, ma catturava l’attenzione». E suo padre? «Mio padre voleva che finissi Legge, però cominciavo a prendere gusto al teatro anche se, davvero, proprio non immaginavo di essere capace di re- citare. A 24 anni mi fecero fare l’upupa negli Uccelli di Aristofane diretto da Giuseppe Di Martino. Era un teatro all’aperto, e io ero sospeso su un trespolo, mentre alle mie spalle, sulla strada, i ragazzini mi sfottevano e io, con un pesantissimo becco di legno in testa, rispondevo con la voce strozzata: “Li morta’” eccetera. Per il resto, molto teatro d’avanguardia» (e qui Proietti imposta voce e portamento come un vero intellettuale snob) «fino a che arrivò il successo con Alleluja brava gente, figuriamoci, in pieno clima sessantottesco, quando tutti erano “servi del padrone” e si voleva recitare al Teatro 101 chiamato così perché aveva solo 101 posti a sedere, con una commedia musicale, quanto potevo essere “servo del padrone”? Ma davvero, fino a A me gli occhi please, i miei genitori non è che avessero capito che il teatro e lo spettacolo sarebbero stati il mio destino».
Non bisognava mai esagerare
I suoi genitori, anche sua madre perciò. «Sì, ma sempre senza troppi entusiasmi perché non mi montassi la testa. Alla fine di una serata, con una calca pazzesca davanti al camerino, con tutti che urlavano, ho visto mia madre e con una certa apprensione le ho chiesto se le fosse piaciuto lo spettacolo, e lei, semplicemente: “Abbastanza”. Non bisognava mai esagerare anche quando si era contenti».
E lei, Gigi Proietti, ha fatto così con i suoi figli? Sua figlia Stefania, in un’intervista proprio al Corriere con Elvira Serra, ha detto che lei non è stato molto severo e al massimo proibiva le sigarette. «Qualche proibizione ci vuole sempre. Ma se ho un rimpianto, ora che il periodo più difficile dell’essere padre è alle mie spalle, è che soprattutto per i miei impegni di lavoro io mi sia vietato il gioco con loro». Il gioco? «Sì, perché tra padri e figli l’educazione è anche un gioco. E poi uno si sente sempre figlio, anche quando è padre con un po’ di anni alle spalle come me. E ci vuole il gioco perché essere padre è un mestiere tremendamente difficile, dove hai sempre paura di sbagliare tutto. Mi sono sempre chiesto che padre sia stato e non riesco a darmi una risposta. Anche per questo Il premio è stato importante per me: ha riaperto capitoli di un libro personale che pensavo fosse chiuso. Ma niente nella vita si chiude per sempre».
I nuovi padri Al cinema interpreto un padre nel film «Il premio». Oggi i nuovi padri sono insicuri, incerti sul loro ruolo, non rappresentano più il principio di autorità
Le due figlie Se ho un rimpianto, è quello di essermi vietato il gioco con loro per i miei impegni di lavoro. Il gioco ci vuole: il mestiere di padre è tremendamente difficile