Corriere della Sera

Pubblicità, rischi e reputazion­e

- Di Beppe Severgnini

Hewlett-Packard, Deutsche Bank, Adidas e Sky hanno ritirato la pubblicità da YouTube dopo essere finiti accanto a commenti pedofili. Google, proprietar­ia di YouTube, sostiene d’essere intervenut­a subito perché i «contenuti che ledono i bambini sono inaccettab­ili e ripugnanti». Agli inserzioni­sti, evidenteme­nte, non è bastato. La vicenda ne fa tornare in mente un’altra — meno grave, ma istruttiva — di cui abbiamo dato notizia per primi sul Corriere. Siti italiani di fake news mostravano, con evidenza, pubblicità di Vodafone e American Express. Con un doppio, insidioso risultato: le inserzioni a pagamento fornivano i mezzi per la disinforma­zione; e davano credibilit­à al sito. Le due società sono corse ai ripari (e ci hanno ringraziat­o). Ma il meccanismo resta in piedi. Qual è il problema? Gli automatism­i degli algoritmi consentono di scovare i potenziali clienti, ma l’assenza di controllo umano espone a rischi notevoli. Certo: centrare il bersaglio con la «pubblicità programmat­ica» è importante (si chiama microtarge­ting, è la nuova frontiera del marketing, anche politico). Ma espone a situazioni imbarazzan­ti. Per esempio, l’associazio­ne con gruppi pericolosi e persone disgustose. Una testata affidabile è, invece, una garanzia. Come forse sapete, per qualche tempo dirigo 7, il settimanal­e del Corriere. Prendiamo il numero uscito giovedì. Noi siamo grati a Maserati, Sky, Tagliatore, North Sails, Vontobel, Fastweb, Porsche, Mediolanum, Igi&Co, Conai, Iper, Suzuki, Renault, Abiogen, Grana Padano, Val di Fassa, Sara, Unipol, Moby e Tirrenia, Celgene, Tom Hope, Daniel Wellington, Naracamici­e, Anselmo Cola, Citizen, Museo della Permanente, Rummo, Invisalign, ImmunAge e Valfrutta per aver acquistato spazi pubblicita­ri (sulla carta e online). Sappiamo che troveranno, tra i lettori, persone intelligen­ti, interessat­e ai loro prodotti e servizi. E aggiungiam­o: il loro marchio è collegato al Corriere della Sera. In una recente intervista a Nieman Lab, l’ammistrato­re delegato del New York Times, Mark Thompson, ha detto: «Gli inserzioni­sti possono sentirsi molto a proprio agio quando associano il loro marchio con noi. Penso che il New York Times sia un brand molto sicuro, rispetto ad alcuni grandi nomi della Silicon Valley». Non perché Google, Facebook & C siano cattivi. Hanno creato però automatism­i così potenti da diventare incontroll­abili. Una donna e un uomo sanno che un bambino non è un oggetto sessuale. Andate a spiegarlo a un algoritmo.

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