Buzzati, la poesia nell’inquietudine
Domani esce con il «Corriere» il volume «Egregio signore, siamo spiacenti di...», pubblicato nel 1960, che è insieme una confessione e una collezione Spunti rapidi e spesso spietati. L’invidia per i giovani, la passione per la bellezza femminile
La data, prima di tutto. Egregio signore, siamo spiacenti di... venne pubblicato nel 1960, quando Dino Buzzati aveva 54 anni. Si tratta di testi brevi, alcuni brevissimi, scritti su molti quaderni nel corso degli anni. L’autore, all’età in cui oggi i coetanei si sfidano sulle bici da corsa, si sentiva anziano. Anzi, vecchio. E la cosa non gli piaceva per niente. Ma un poeta trova la poesia anche nell’inquietudine. Anzi, soprattutto lì.
Per questo Egregio signore, siamo spiacenti di... è un libro formidabile.
È feroce, denso, duro, scuro. A tratti, esilarante; a tratti, sconcertante. Dietro quell’aria da sognatore, e quel garbo da gentiluomo, Dino Buzzati nascondeva una sensibilità burrascosa e molte zone d’ombra, dentro le quali coltivava piante artistiche spettacolari. Lo avevano capito gli amici, come Indro Montanelli, che lo difese sempre a spada tratta. E alcuni colleghi del «Corriere della Sera», come Enzo Bettiza. Nella raccolta Saggi, viaggi e personaggi (1983) — all’interno del capitolo dedicato a Eugenio Montale, curiosamente — dipinge questo ritratto di Buzzati: «Quanto alla notte, era forse meglio non indagare. Era meglio lasciarsene informare per via poetica dai racconti e dai dipinti fantastici, dominati da una sorta di goticità fumettistica e vampiresca, ai quali Buzzati, verso il tramonto della sua apparizione terrena, aveva preso a confidare gli orrori di una fantasia sempre più contagiata e stregata dall’ansia della morte. (...) Non finiva mai di stupire in lui un certo chiaroscuro di tenebra e di innocenza, una certa sua purezza immacolata, infantile, quasi brada, che deviava nell’amoralità e lasciava presagire subito il risvolto di un’inclinazione pressoché incontrollata ai fiori del male».
L’impressione è che Dino Buzzati fosse un uomo ansioso di essere scoperto. Per questo Egregio signore, siamo spiacenti di... è un libro formidabile. Perché è pieno di indizi.
L’aveva capito Domenico Porzio, che nell’introduzione all’edizione Oscar Mondadori (1975, Buzzati era scomparso tre anni prima), scrisse: «In realtà Buzzati, chi più chi meno, ci ha ingannato tutti: con la sua aria svagata, fanciullescamente impertinente, ci ha indotto a un clamoroso errore di interpretazione. La sua preoccupazione, vivendo, fu quella di spargere sulla sua realtà di scrittore una cortina fumogena: lasciarsi credere un favolista innocuo, un creatore di fantasticherie appena un po’ deprimenti e angosciate, un inventore di divertenti paradossi esistenziali appena un po’ crudeli».
È così. Egregio signore, siamo spiacenti di... è, insieme, una confessione e una collezione. Un libro-serbatoio: contiene spunti per trenta libri. Dino Buzzati ne era consapevole. Queste pagine erano le sue prove d’autore, ma l’autore — fortunatamente — aveva capito che avevano un valore in sé; altrimenti non le avrebbe pubblicate. La rapidità degli spunti non costituisce una debolezza (la brevità, da Tacito a Twitter, ha dimostrato d’avere i suoi vantaggi). Se Il deserto dei Tartari prova come Buzzati padroneggiasse il ritmo narrativo, e Un amore conferma la sua capacità di costruzione dei personaggi, Egregio signore, siamo spiacenti di... rivela una impressionante capacità d’osservazione.
Dietro quel sorriso educato, Buzzati vedeva tutto. E quello che non vedeva, temeva. E quello che temeva, lo scriveva. Giorno dopo giorno.
Questo è un testo che si può aprire a caso, leggere dal fondo o dalla metà. Prove narrative alternate a brevi appunti giornalistici: due generi che Buzzati maneggiava con maestria. Suggerisco di partire da Cose che odio. Chi non ha mai sognato di compilare un elenco del genere? Molti di noi l’hanno addirittura fatto. Ma quanti hanno avuto il coraggio di spiattellarlo in pubblico, inimicandosi intere categorie? Il mite, educato, civilissimo Dino Buzzati non ci ha pensato due volte. Ecco le cose che, per sua stessa ammissione, odiava: «Le persone serie — il tè “completo” — i calzini — il pelo delle donne — le false bionde — il mito dei viaggi — lo storicismo — gli astemi — le canzoni napoletane — i furbi — i delitti per onore — le scarpe a due colori — il galop finale — il titolo “dottore” — i “tartufi” di ogni genere — le metafore mitologiche — i berretti baschi — i permalosi — gli inquadramenti storici — la pegamoide — l’odore di fritto nelle fiere rionali — i libri noiosi — i presepi napoletani — i film documentari — le campane, specialmente di rito ambrosiano — le angurie, i cetrioli, le melanzane — le barbe da profeta — le poesie dialettali — la costellazione d’Orione — il raglio dell’asino — i giardini d’inverno — i puristi — i vini dolci — i numeri che finiscono col 7 — i soldatini di plastica — i calzoni larghi — i genitori di bambini straordinari — l’organo e la cornamusa — gli zingari — le conversioni religiose degli uomini celebri — la pittura pompeiana — le maschere dei clowns — le barzellette — quelli più bravi di me — quelli che odiano i profumi».
Un paradosso? Non siatene così certi. I testi brevi sono, spesso, spietati: non c’è il tempo di nascondere la mano, lanciato il sasso. Il libro che state per leggere non è Un amore. Semmai, Un rancore.
Ci sono passaggi che sfiorano la crudeltà. Questa dimostrazione di compiacimento malvagio, per esempio: «Fate bene a insuperbirvi, o giovanotti. Noi siamo ormai vecchi, da buttar via. Il mondo è già vostro e voi intendete disporne a piacimento, avete tutte le ragioni. Dai nostri funerali rincaserete con un appetito formidabile, pieni di vitalità e progetti. Alla sera, coricandovi, sentirete un doloretto a destra dello stomaco, per ora una cosa da nulla».
Oppure quest’invidia esibita per la bellezza e la gioventù. Il pezzo — fulminante, nella sua desolata onestà intellettuale — s’intitola Il “night”: «Ero in un ritrovo notturno. Vidi entrare un giovane col colletto della camicia alzato sulla nuca, molto bello, in atteggiamento protervo. Veniva, evidentemente, a conquistare la vita. Fece un cenno alla più bella delle entraineuses che gli andò subito incontro, e si mise a ballare. Ballava vittoriosamente, senza ritenzioni, stava appunto conquistando la vita. Allora tutto ciò che era stato mio, attraverso gli anni, non era più niente. I mostri, gli incantesimi, le strane cose in cui avevo creduto, non erano più niente. Le nuvole, le torri trionfali (immaginarie), le strade d’oriente, la luna, le notti terribili, non erano più niente. Per colpa di quello sciagurato».
Quando Dino Buzzati torna a uno dei suoi temi classici — la bellezza femminile in fiore — ci si potrebbe aspettare un momento di sollievo. Ma non arriva. L’incontro del dottor Tullio Rabeschi con la liceale Sofia, figlia di amici, è il racconto di un rimpianto: «(E intanto gli si formava dentro uno strano sviluppo di pensieri: che trasformazione impressionante, una creatura da perderci la testa, avessi 25 anni di meno, eh sì, una bambina ancora, però quella soave e insieme sfrontata piega delle labbra, quel collo liscio e pieno. E il resto? Tutto quello che si poteva indovinare sotto l’abito leggero, e che quasi gli toglieva il fiato?)». I due si mettono a parlare della scuola, la ragazzina confessa all’adulto che in tutte le materie va molto bene, salvo che in matematica: «“Scommetto” Rabeschi disse con un sorriso malinconico, “scommetto che in matematica hai una professoressa”. “Una professoressa, sì”, e rise. “Ma lei come ha fatto a indovinare?”».
«Lo scrivere è una delle più ridicole e patetiche delle nostre illusioni», leggiamo a un certo punto. Ma sono le illusioni, anche quelle ridicole e patetiche, che ci aiutano a tirare avanti. Senza i suoi libri, senza i suoi quaderni, senza i suoi articoli, senza la redazione del «Corriere», l’autore di queste pagine sarebbe stato un uomo più infelice.
Egregio signore, siamo spiacenti di... vivere, vorrebbe dirci Dino Buzzati. Ma, in fondo, ci piace moltissimo. Piaceva anche a lui.