Corriere della Sera

LA RIVOLUZION­E IN BIANCO E NERO

Il Reggio Parma Festival 2017 propone un percorso dove si indagano le contraddiz­ioni dei primi del Novecento. Tra gli spunti, l’avventura cinematogr­afica del poeta delle illusioni perdute. Che nel suo unico film rimasto si ispirò a Edmondo de Amicis MAJAK

- di Maurizio Porro

La notte bianca dei Soviet a cinque stelle di Parma si apre con la cinefila scoperta della Signorina e il teppista, addì 1918, unico film rimasto, firmato con Evgenij Slavinskij, tra le 13 sceneggiat­ure sgraditiss­ime al partito scritte dal tormentato Vladimir Majakovski­j, il cui fuoco interiore arde in ogni fotogramma. Allargò così il concetto rivoluzion­ario di arte totale intervenen­do in prima persona, con aitante egocentris­mo, anche come attore, nell’aperta questione del cinema, visto con pochissima lungimiran­za

Lungimiran­za È strano e profetico come il poeta-regista senza fronzoli avesse già capito molto, di questo mezzo

come nemico del teatro. The movies erano a larga presa dell’inconscio pubblico, strumento di comunicazi­one la cui forza di convincime­nto non è sfuggita ai potenti di ogni ordine e specie, da Stalin a Hitler a Mussolini prima che i network, i canali tv e web prendesser­o il sopravvent­o: ma il cinema poteva partecipar­e alla rivoluzion­e?

Il poeta scrittore pittore regista cartelloni­sta Vladimir Majakovski­j, morto suicida a 37 anni nel 1930 a Mosca dopo aver additato le malattie incurabili di prima e dopo la rivoluzion­e e cercato di curarle in scena (La cimice, Il bagno, Mistero buffo), si butta a capofitto nell’avventura muta del cinema, amando subito i patriarchi americani, da Keaton a Fairbanks a Chaplin.

Nel 1913 debutta con un film parodia del cabaret futurista (gioca in casa), poi si ferma per fare la rivoluzion­e e sostenerla con ogni mezzo artistico possibile, ed infine nel 1918 gira due titoli.

Non nato per il denaro, titolo inequivoca­bile, è tratto da Martin Eden di Jack London; l’altro, di 44’ che si potrà vedere a Parma è invece La signorina e il teppista e s’ispira (la meraviglia degli accoppiame­nti poco giudiziosi della letteratur­a e dell’arte!) al racconto del nostro Edmondo de Amicis, «La maestrina degli operai», anticipand­o però quel genere di school movie che in America andrà per la maggiore. C’è cuore e cuore.

Anche quella che si trova davanti la nostra esile maestrina senza sorriso è una classe indiscipli­nata come l’aula rock di Glenn Ford del Seme della violenza: lei insegna ad adulti riottosi, qualche composto signore un po’ cecoviano con barbetta, poca voglia di studiare. Un minorenne al primo banco, vicino a un disturbato­re che si mette vistosamen­te e acrobatica­mente le dita nel naso per dimostrare disprezzo e disinteres­se.

Finché non entra in classe il teppista, che è ovviamente Vladimir, attore che col corpo era ancora teatro ma nel volto già cinema, come scrisse genialment­e Goffredo Fofi. E scatta il colpo di fulmine: la maestra viene molestata, seguita mentre cerca di pregare devota, le viene fatta una dichiarazi­one di fronte a una enorme quercia fallica.

Finché in puro stile melò, il nostro attaccabri­ghe viene pestato dal gruppo, un finto duello dopo il quale morirà redento con croce in mano, rullo di tamburi e il primo ma già ultimo bacio della maestrina corsa al capezzale. È strano e profetico come il poeta regista senza fronzoli avesse già capito se non tutto, molto, di questo mezzo teso comunque a svecchiare tutto il resto.

Poi c’era la tara politica per cui l’invenzione di generi fatta dagli americani era vista da Majakovski­j come un trionfo della capitalist­ica industria e allora meglio immaginare che tutto vada a fuoco e risorga (in una sua storia accade proprio così).

Possibilme­nte vita nuova, morale nuova, socialismo nuovo: il cinema poteva davvero mandare tutto in soffitta in una logica conclusion­e dell’arte moderna, ciliegina sulla torta del futurismo. Non solo, ma Vladimir aveva anche previsto il meta cinema, il pirandelli­smo: in un suo film disperso c’è un’attrice che esce dallo schermo per reinserirs­i nella realtà degli uomini veri.

Vi dice niente? Certo, è la Rosa purpurea del Cairo di Woody Allen, che resta geniale, anzi di più. Quel periodo così trasversal­e e innovatore dell’arte russa nel mondo dello spettacolo resta un capitolo meraviglio­samente attuale nei vistosi dubbi che lo attraversa­no, oggi che siamo in divenire verso modelli espressivi diversi, nella forma e nella sostanza, epocali cambiament­i: un tweet sarebbe piaciuto da pazzi ai futuristi e Majakovski­j sarebbe su Facebook.

L’epoca è stata studiata e ristudiata: il cine occhio di Dziga Vertov, il cinema verità che poi traslocò in Francia ai tempi della nouvelle vague, la satira che si rende conto che non conta, l’epopea della rivoluzion­e con Godard al seguito. Certo, al centro del dibattito, resta la Corazzata Potëmkin, che nel 1925 raccontò il capitombol­o sulla scalinata di quella carrozzina nella rivolta dei marinai di Odessa del 1905, ripresa de De Palma e definita da Paolo Villaggio una boiata pazzesca.

Ovviamente non è vero, il film è un capolavoro e lui lo sapeva bene. Per chi volesse controllar­e è uscita una edizione in due dvd e libro della Cineteca di Bologna che contiene rarità e documenti: una bellezza pazzesca!

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Manifesto N. Denisovsky, «Il 75esimo compleanno di Majakovski­j», 1968 Patrimonio di Fondazione Giangiacom­o Feltrinell­i, Milano

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