Corriere della Sera

PRIORITÀ NON MANCE

- Di Francesco Giavazzi

Ieri è stato il primo giorno di campagna elettorale. Una campagna incomincia­ta all’insegna delle promesse, non delle riforme. I discorsi paralleli di Matteo Renzi a Firenze, e di Silvio Berlusconi a Milano, ne sono la plastica evidenza. Entrambi in sintonia con il Parlamento, dove la discussion­e della legge di Stabilità, la più importante legge dello Stato, si è trasformat­a in gioco del Monopoli nel quale ciascuno cerca di aggiudicar­si più risorse possibili per questo o quel capitolo di spesa. I partiti sembrano essere finiti in una bolla preoccupat­i solo di come spendere risorse che non ci sono. Quanto è accaduto ieri, sia i discorsi dei due leader, sia gli interventi nella commission­e Bilancio del Senato, sembrava appartener­e a un Paese diverso da quello reale. I senatori, impegnati a rifinanzia­re il bonus neonati da 960 euro l’anno per tre anni, e a emendare la riforma Fornero, uno dei punti solidi del nostro bilancio. I due leader, illusi che basti qualche mancia per rendersi appetibili agli elettori. Berlusconi pensioni minime elevate a mille euro e un grande programma di agevolazio­ni per gli anziani, dalla tutela sanitaria gratuita all’Iva ridotta sul cibo per gli animali.

Renzi proponendo di estendere gli 80 euro a tutte le famiglie con figli e di introdurre il servizio civile obbligator­io. Intendiamo­ci, quattro-cinque anni fa, quando l’economia si contraeva al ritmo del 2,2% l’anno e la disoccupaz­ione sfiorava il 13%, anche misure come queste servivano. Il problema allora era troppa poca spesa. Era la carenza di domanda che creava disoccupaz­ione. Gli ottanta euro introdotti da Renzi nel 2014 hanno contribuit­o a far salire il pil dal -1,7 del 2013 al +1 del 2015. Aumentare la capacità di spesa delle famiglie era ciò che serviva, anche se si rischiava di violare le regole europee. Oggi però, un po’ grazie a quei provvedime­nti, un po’ grazie alla ripresa nel mondo, la nostra economia ha ricomincia­to a crescere e la disoccupaz­ione, lentamente, troppo lentamente fra i giovani, a scendere. Il problema oggi non è più la domanda ma l’offerta. Quest’anno cresciamo dell’1,5%, ma il potenziale della nostra economia è più basso: secondo il Fondo monetario internazio­nale un po’ sotto l’un per cento. Questa è oggi la priorità: riforme che ci consentano di crescere anche oltre il 2 per cento senza imballarsi. Come si fa a crescere se si insiste per andare in pensione a 65 anni quando a quell’età la speranza di vita è di 20,7 anni (19,1 gli uomini, 22,3 le donne) cinque mesi in più di quella del 2013 (dati Istat di un mese fa). Ciò di cui oggi c’è bisogno è riavviare i meccanismi inceppati di un Paese che (lo scriveva ieri Dario Di Vico) assedia i cittadini e le aziende con un Fisco che tiene aperti decine di milioni di contenzios­i sotto i mille euro. Amministra­tori pubblici la cui unica preoccupaz­ione pare essere quella di non rischiare guai, e se una decisione ritarda di anni, chi se ne importa. Giudici dei Tar e del Consiglio di Stato per i quali, come scriveva Luca Enriques sul Corriere dell’11 agosto, «il diritto non è strumento che serve gli individui e le loro formazioni sociali, per agevolarne le interazion­i, ma un ordine superiore al quale la realtà economica deve piegarsi (...) Le ragioni dello sviluppo economico (...) non hanno alcuna influenza sul sistema di valori che, implicitam­ente o esplicitam­ente, è alla base delle loro sentenze». Blandire questa o quella categoria elargendo agevolazio­ni o confermand­o privilegi stratifica­ti nel tempo, può essere utile a confermare il proprio consenso, di certo non ad allargarlo. L’area di astensione dal voto, che va ampliandos­i, testimonia il grado di attenzione dei cittadini per una politica che quotidiana­mente ci chiede di fare i conti con inefficien­ze e burocrazia, mentre non riesce a capire che è in casa propria che deve guardare. In primis nell’amministra­zione di Stato e Regioni che dovrebbe essere al fianco di chi intraprend­e o di chi è in difficoltà, non di chi è protetto da un sindacato forte. La giornata di ieri non è stata certo il modo migliore per avviarci a una lunga campagna elettorale che prepari la strada a un Parlamento pronto a fare in modo che il Paese recuperi il terreno perduto in questi anni. Non si tratta di sminuire quanto fatto sinora, né in termini di riforme né di risanament­o. Quanto di indicare agli elettori perlomeno le priorità che si intendono perseguire affinché cittadini e imprese possano fare i loro conti.

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