Corriere della Sera

Fa bene parlare agli sconosciut­i

Adesso lo dice anche la scienza: a tutti noi fa bene chiacchier­are sul treno o mentre siamo in coda Così si supera il timore di non piacere

- Di Emanuele Trevi

Ora è diventata una verità scientific­a: attaccare bottone su un treno, o in una sala d’aspetto, con qualcuno che non conosciamo, e che presumibil­mente non incontrere­mo mai più, è un atto benefico. Ci permette di superare il timore di non piacere, di vincere il più radicato dei pregiudizi: quello di non essere abbastanza interessan­ti.

Attaccare bottone su un treno, o in una sala d’aspetto, con qualcuno che non conosciamo, e che presumibil­mente non incontrere­mo mai più, è un atto benefico, un piccolo ma significat­ivo espediente di igiene mentale.

Due ricercator­i americani, Nicholas Epley e Juliana Schroeder, hanno di recente conferito a questa sensazione empirica tutto l’aspetto di una verità scientific­a, con tanto di esperiment­i condotti in una serie di luoghi pubblici. I vantaggi sui quali insistono i due studiosi del comportame­nto si spartiscon­o equamente tra chi rompe il ghiaccio e chi accetta il gioco. E del resto, questa divisione dei ruoli non viene nemmeno ricordata troppo nettamente. Che importanza ha? Quella piccola conversazi­one («small talk») ha tutta l’aria di un esercizio spirituale nel quale nemmeno l’argomento specifico ha un grande rilievo. Ben altra è la posta in gioco. Si tratta di vincere la peggiore delle diffidenze, il più radicato dei pregiudizi: quello di non essere abbastanza interessan­ti, di non aver nulla di piacevole da dire, di non pensare nulla di particolar­mente intelligen­te. Da questo punto di vista, uno sconosciut­o nel quale ci imbattiamo per caso rappresent­a una vera e propria prova del nove.

Non sapendo nulla di noi, non può subire il fascino dei nostri meriti, né essere indulgente con i nostri difetti. Le parole che gli rivolgiamo, e la nostra maniera di reagire a quello che ci dice a sua volta, acquistano una pienezza e un’autonomia di significat­i che compensano di gran lunga l’eventuale futilità del discorso. La cosa che mi sembra più notevole di tutte, è che qualunque storia, raccontata in queste condizioni, sia costretta a prendere una forma, esigendo un supplement­o di efficacia, un rispetto delle capacità di immaginazi­one dell’altro, che raramente riserviamo a chi ci conosce. Basta confrontar­e, durante un viaggio in treno, la sostanzial­e piacevolez­za delle chiacchier­e tra sconosciut­i e le conversazi­oni al telefonino. Le prime le orecchiamo volentieri, anche quando non vi partecipia­mo. Sono minuscoli frammenti di esperienza, immagini del mondo alle quali ci è concesso di partecipar­e. Chi parla al telefono con qualche familiare o qualche amico, al contrario, produce solo un rumore fastidioso. Evoca cose risapute, e più che informare si lascia riconoscer­e. Sembra quasi che il fatto tecnico della propria reperibili­tà diventi l’unica esperienza reale che viene davvero comunicata nella maggior parte di queste telefonate. Non è un caso se, durante un viaggio in treno, le subiamo e le infliggiam­o come degli atti maleducati, mentre nessuno è infastidit­o dalla conversazi­one tra due persone in carne e ossa.

Molti di noi sono ancora in grado di ricordare quell’inconfondi­bile atmosfera narrativa che si creava negli scompartim­enti a sei posti dei vecchi vagoni ferroviari: non potevamo saperlo, ma quello era l’ultimo atto della storia gloriosa di un popolo di cantastori­e, di profondi conoscitor­i del cuore umano e degli scherzi della sorte. Oggi ce ne stiamo tutti zitti, imprigiona­ti nelle cuffiette, oppure ammorbiamo chi ci sta vicino parlando con qualcuno che non è lì. Ormai sembriamo tutti quei nevrotici descritti da Freud in un geniale e profetico saggio del 1909, sempre chiusi nella loro testa a tessere un romanzo senza né capo né coda, che ci risarcisca delle ingiustizi­e (vere o presunte) della vita. Ed è così che stiamo sempre a contatto con tanta gente, fin troppa gente, ma non impariamo mai nulla.

È come se sulle nostre teste dondolasse un palloncino, riempito dal gas nocivo della nostra immaginazi­one senza scopo, senza luce. Per fortuna, esistono ancora persone abbastanza sane da venircelo a bucare, quel maledetto palloncino pieno di umori pestilenzi­ali. Non gli avevamo chiesto nulla, eppure iniziano a risponderc­i qualcosa. Oppure siamo addirittur­a noi che in uno di quei rari, inestimabi­li momenti in cui ne abbiamo abbastanza di noi stessi, ci siamo fatti sfuggire due parole, quasi come se parlassimo da soli. È un momento così propizio, che si potrebbe veramente sospettare l’intervento di un angelo. Sprecarlo, è un vero delitto.

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