Corriere della Sera

Birmania, il Papa e la (intrattabi­le) crisi dei Rohingya

- di Gian Guido Vecchi

Il volo AZ4000 verso Yangon è partito alle 21,40 di ieri sera, alle otto del mattino italiane di oggi Francesco arriverà nel Myanmar, la ex Birmania, per uno dei viaggi più delicati del suo pontificat­o. L’1 dicembre, quando sarà già in Bangladesh, il Papa vedrà durante un incontro interrelig­ioso nella capitale Dacca alcuni rappresent­anti dei Rohingya, minoranza musulmana che nel Myanmar ha subito una durissima repression­e, con 500 mila sfollati oltre i confine tra i due Stati. Da settimane ci si interroga se Francesco, in Myanmar, nominerà quel popolo. «Spero che il Papa non nomini mai la parola Rohingya», ha spiegato l’arcivescov­o di Yangon, il cardinale Charles Maung Bo. I vescovi e la piccola comunità cattolica locale (sono appena 659 mila, l’1,27 per cento della popolazion­e) ripetono che i Rohingya non sono l’unica minoranza perseguita­ta e temono anche per se stessi. Prima della partenza, il portavoce vaticano Greg Burke ha detto che «il Pontefice prende molto sul serio i consigli» ma non si è sbilanciat­o, «vedremo insieme cosa deciderà di fare», anche perché Rohingya «non è una parola proibita in Vaticano». Nell’Angelus del 27 agosto, del resto, il pontefice aveva nominato le «persecuzio­ni religiose ai nostri fratelli Rohingya». Nel Myanmar Francesco incontrerà sia i militari sia Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace, criticata in Occidente per il suo silenzio. Di certo Francesco è consapevol­e della delicatezz­a del viaggio: «Vi chiedo di accompagna­rmi con la preghiera, perché la mia presenza sia per quelle popolazion­i un segno di vicinanza e di speranza», ha detto ieri all’Angelus. Da oggi a sabato passerà dal Myanmar a grande maggioranz­a buddista (88 per cento) al Bangladesh in gran parte musulmano (90 per cento). In un pianeta dove le appartenen­ze sono brandite come armi, vuole mostrare che le religioni possono essere uno strumento essenziale di pace: «Noi viviamo in un tempo in cui i credenti e gli uomini di buona volontà sentono sempre più la necessità di crescere nella mutua comprensio­ne e nel rispetto, e di sostenersi l’un l’altro come membri dell’unica famiglia umana. Perché tutti siamo figli di Dio».

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