Corriere della Sera

I NOSTRI INTERESSI IN AFRICA IMPARIAMO A FARE SISTEMA

C’è da augurarsi che il presidente del Consiglio Gentiloni vorrà cogliere l’occasione del Vertice di Abidjan per rilanciare la nostra presenza

- di Antonio Armellini

Il viaggio di Paolo Gentiloni in diversi Paesi africani — a non molta distanza da quello, analogo, compiuto da ministro degli Esteri — è una novità per un Capo di governo italiano; ci si augura segni l’avvio di un diverso approccio nei confronti di un Continente trattato spesso con sufficienz­a.

L’atteggiame­nto dell’Italia è stato tradiziona­lmente ondivago, ispirato da tattiche commercial­i di limitato respiro quando non da improvvidi disegni politici. Agli anni Ottanta dai fasti craxiani del Fai e dai miliardi a pioggia della cooperazio­ne allo sviluppo, ha fatto seguito il braccio sempre più corto del periodo successivo, che ha finito per relegarci in coda ai Paesi donatori. Abbiamo avuto un ruolo importante nell’indipenden­za di Paesi come il Mozambico o il Ghana, per poi uscire quasi di scena. Vicende come quella dell’Università nazionale somala attendono di essere raccontate compiutame­nte. Avere identifica­to il nostro passato coloniale con il fascismo ha consentito una sorta di rimozione collettiva che ha permesso di presentarc­i, e financo di convincerc­i, come estranei alle storie di sfruttamen­to e soprusi di altri. Che le cose non siano andate propriamen­te così lo ha ricordato più volte uno storico attento come Angelo Del Boca; l’imperialis­mo rabberciat­o dell’Italietta post-risorgimen­tale precedeva di molti decenni quello grandiloqu­ente di Mussolini e le differenze fra noi e gli altri sono state di quantità e non di qualità. Ci siamo macchiati delle stesse colpe e degli stessi soprusi. Le nostre ex colonie sono, per un’ironia della storia, diventate tutte punti caldi dell’instabilit­à africana e qui la rimozione ha operato in una duplice direzione. Da un lato, rendendoci timorosi di risvegliar­e con una politica attiva il demone delle accuse di

Rapporti A partire dall’emergenza migratoria, il Continente nel suo complesso è per noi di importanza vitale

colonialis­mo non solo fascista (come puntualmen­te avvenuto in Libia); dall’altro rinunciand­o in nome di tale timore ad esercitare quel tanto o poco di influenza che avrebbe potuto essere messa utilmente a frutto.

L’Africa è per noi di importanza vitale: non solo la fascia sud del Mediterran­eo, ma il Continente nel suo complesso. A partire dall’emergenza migratoria; nel breve periodo, gli accordi che si stanno negoziando permettera­nno — forse — di contenere un po’ i flussi, ma quella di consentire agli africani di crescere a casa propria — come recita uno slogan di moda — è sì la soluzione ma richiederà decenni. Aprire alle esportazio­ni agricole e industrial­i ne sarà condizione indispensa­bile e sarebbe bene cominciare a pensare da subito come adattare i nostri rapporti commercial­i e le nostre politiche industrial­i. Parlandone magari intanto con gli agricoltor­i francesi, e non solo.

La crescita impetuosa del Continente è una ulteriore rappresent­azione delle trasformaz­ione in atto. Se ne è accorta la Cina, che ha preceduto

Influenze La Cina ha preceduto tutti, occupando spazi lasciati liberi dagli Usa e dalla Russia di Putin

tutti. Arroganza e modi spicci hanno sollevato echi di neocolonia­lismo e dimostrato ai paesi africani che esso rimane tale, anche quando si ammanta dei colori del socialismo asiatico. Ciò detto, la Cina è diventata un player ineliminab­ile, pronto ad occupare gli spazi lasciati liberi dagli americani e da una Russia che vivacchia ancora della rendita dell’ex Urss.

L’approccio dell’Unione Europea è stato caratteriz­zato — è bene ricordarlo — da una forte impronta francese, che ne ha appesantit­o il carattere assistenzi­ale e le sfumature neocolonia­li. Di revisioni si è parlato molte volte senza grande costrutto: ha pesato la progressiv­a carenza di fondi e, soprattutt­o, la mancanza di un disegno strategico capace di andare oltre il mantenimen­to delle posizioni esistenti (che la Cina sta vistosamen­te erodendo). Per l’Italia l’ancoraggio europeo è fondamenta­le: c’è da augurarsi che Gentiloni vorrà cogliere l’occasione del Vertice Ue-Unione Africana di Abidjan per rilanciare una visione più attenta ai nostri interessi. Che poi sono quelli di tutti, perché i problemi della gestione dei flussi migratori e dell’integrazio­ne dei sistemi produttivi non sono certo solo nostri.

Per molti anni l’Italia in Africa ha avuto molte teste, in aggiunta a quella dello Stato. Era l’epoca delle politiche estere aziendali indipenden­ti, e talvolta in contrasto con le priorità generali del Paese: aveva storicamen­te giustifica­zioni che, se non hanno sempre assolto le storture, hanno contribuit­o a spiegarle. Oggi non più. Gruppi come l’Eni, che ebbero un ruolo decisivo allora, sono ancor oggi capofila di investimen­ti crescenti di molte nostre imprese in settori vitali come l’approvvigi­onamento energetico e la sicurezza alimentare. In una fase di crescenti debolezze non possiamo permetterc­i, né in Europa né a livello bilaterale, di andare ciascuno per conto proprio: l’Italia deve imparare a fare finalmente sistema. Prima che politico, è un problema culturale. Ma decisivo.

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