I NOSTRI INTERESSI IN AFRICA IMPARIAMO A FARE SISTEMA
C’è da augurarsi che il presidente del Consiglio Gentiloni vorrà cogliere l’occasione del Vertice di Abidjan per rilanciare la nostra presenza
Il viaggio di Paolo Gentiloni in diversi Paesi africani — a non molta distanza da quello, analogo, compiuto da ministro degli Esteri — è una novità per un Capo di governo italiano; ci si augura segni l’avvio di un diverso approccio nei confronti di un Continente trattato spesso con sufficienza.
L’atteggiamento dell’Italia è stato tradizionalmente ondivago, ispirato da tattiche commerciali di limitato respiro quando non da improvvidi disegni politici. Agli anni Ottanta dai fasti craxiani del Fai e dai miliardi a pioggia della cooperazione allo sviluppo, ha fatto seguito il braccio sempre più corto del periodo successivo, che ha finito per relegarci in coda ai Paesi donatori. Abbiamo avuto un ruolo importante nell’indipendenza di Paesi come il Mozambico o il Ghana, per poi uscire quasi di scena. Vicende come quella dell’Università nazionale somala attendono di essere raccontate compiutamente. Avere identificato il nostro passato coloniale con il fascismo ha consentito una sorta di rimozione collettiva che ha permesso di presentarci, e financo di convincerci, come estranei alle storie di sfruttamento e soprusi di altri. Che le cose non siano andate propriamente così lo ha ricordato più volte uno storico attento come Angelo Del Boca; l’imperialismo rabberciato dell’Italietta post-risorgimentale precedeva di molti decenni quello grandiloquente di Mussolini e le differenze fra noi e gli altri sono state di quantità e non di qualità. Ci siamo macchiati delle stesse colpe e degli stessi soprusi. Le nostre ex colonie sono, per un’ironia della storia, diventate tutte punti caldi dell’instabilità africana e qui la rimozione ha operato in una duplice direzione. Da un lato, rendendoci timorosi di risvegliare con una politica attiva il demone delle accuse di
Rapporti A partire dall’emergenza migratoria, il Continente nel suo complesso è per noi di importanza vitale
colonialismo non solo fascista (come puntualmente avvenuto in Libia); dall’altro rinunciando in nome di tale timore ad esercitare quel tanto o poco di influenza che avrebbe potuto essere messa utilmente a frutto.
L’Africa è per noi di importanza vitale: non solo la fascia sud del Mediterraneo, ma il Continente nel suo complesso. A partire dall’emergenza migratoria; nel breve periodo, gli accordi che si stanno negoziando permetteranno — forse — di contenere un po’ i flussi, ma quella di consentire agli africani di crescere a casa propria — come recita uno slogan di moda — è sì la soluzione ma richiederà decenni. Aprire alle esportazioni agricole e industriali ne sarà condizione indispensabile e sarebbe bene cominciare a pensare da subito come adattare i nostri rapporti commerciali e le nostre politiche industriali. Parlandone magari intanto con gli agricoltori francesi, e non solo.
La crescita impetuosa del Continente è una ulteriore rappresentazione delle trasformazione in atto. Se ne è accorta la Cina, che ha preceduto
Influenze La Cina ha preceduto tutti, occupando spazi lasciati liberi dagli Usa e dalla Russia di Putin
tutti. Arroganza e modi spicci hanno sollevato echi di neocolonialismo e dimostrato ai paesi africani che esso rimane tale, anche quando si ammanta dei colori del socialismo asiatico. Ciò detto, la Cina è diventata un player ineliminabile, pronto ad occupare gli spazi lasciati liberi dagli americani e da una Russia che vivacchia ancora della rendita dell’ex Urss.
L’approccio dell’Unione Europea è stato caratterizzato — è bene ricordarlo — da una forte impronta francese, che ne ha appesantito il carattere assistenziale e le sfumature neocoloniali. Di revisioni si è parlato molte volte senza grande costrutto: ha pesato la progressiva carenza di fondi e, soprattutto, la mancanza di un disegno strategico capace di andare oltre il mantenimento delle posizioni esistenti (che la Cina sta vistosamente erodendo). Per l’Italia l’ancoraggio europeo è fondamentale: c’è da augurarsi che Gentiloni vorrà cogliere l’occasione del Vertice Ue-Unione Africana di Abidjan per rilanciare una visione più attenta ai nostri interessi. Che poi sono quelli di tutti, perché i problemi della gestione dei flussi migratori e dell’integrazione dei sistemi produttivi non sono certo solo nostri.
Per molti anni l’Italia in Africa ha avuto molte teste, in aggiunta a quella dello Stato. Era l’epoca delle politiche estere aziendali indipendenti, e talvolta in contrasto con le priorità generali del Paese: aveva storicamente giustificazioni che, se non hanno sempre assolto le storture, hanno contribuito a spiegarle. Oggi non più. Gruppi come l’Eni, che ebbero un ruolo decisivo allora, sono ancor oggi capofila di investimenti crescenti di molte nostre imprese in settori vitali come l’approvvigionamento energetico e la sicurezza alimentare. In una fase di crescenti debolezze non possiamo permetterci, né in Europa né a livello bilaterale, di andare ciascuno per conto proprio: l’Italia deve imparare a fare finalmente sistema. Prima che politico, è un problema culturale. Ma decisivo.