Corriere della Sera

Passione e rabbia nel Sud disilluso dei nobili perdenti

- Di Carlo Baroni

Il suo mondo era sempre stato un altro. Anche se gli toccava passeggiar­e in questo. Dove si sentiva un ospite, tutt’al più un osservator­e. Spesso un intruso. Non che il saperlo gli facesse male. Anche quando gli davano dell’«aristocrat­ico». Proprio lui che veniva dal popolo. Da un Sud povero e dignitoso. A pensarci bene, però, potevano averci preso. Sì, perché Frank nobile lo era per davvero. Il sangue blu gli scorreva nell’anima, nel cuore, nella testa. E per chi ce l’ha non c’è nessun albero genealogic­o che tenga. La Genovese, romanzo di Enrico Fierro edito da Aliberti, è la sua storia. Un’esistenza d’amore e di rabbia, anzi di raggia, che vuol dire la stessa cosa ma è anche qualcosa di più. Se fai il giornalist­a, poi. Un mestiere cambiato, finito no di sicuro. Quello mai. Ci sarebbe stato sempre qualcuno con gli occhi per raccontare, mani per testimonia­re, gambe per non piegarsi.

Frank è disilluso. Quella che per lui è passione e sì, persino dovere civile, per altri è la strada più breve per una comparsata in tv, la scorciatoi­a per uscire a cena con il divo di turno che il giorno dopo avrà già cambiato faccia. Mentre la tua l’hai già persa a prestarti a questo gioco. Frank sarebbe un idealista se ci fossero ancora gli ideali. Anche i suoi si sono dissolti. Doveva andare così. Per i superficia­li era un uomo rimasto indietro, non si erano nemmeno accorti che invece era più avanti degli altri. Frank i giornali li amava. Quasi fisicament­e. Qualcosa che se non lo senti non sai neanche cos’è. Merito di chi nella carta ci viveva dentro. Peppino Matarazzo, per esempio, edicolante di mestiere. E chissà, magari, per scelta. Gli riempiva la testa e la casa di articoli da sfogliare. Fogli dove non c’erano verità, ma le domande giuste sì. Una caccia al tesoro per capire come girava il mondo. Il giornale ti dava gli indizi, poi toccava a te. Gli piaceva il fruscio delle pagine quando le girava. Il giornale lo potevi stropiccia­re ma chiedeva rispetto. Potevi non condivider­e quello che scriveva, ma dovevi starci a «parlare». Quando era toccato a lui di metterci le parole, il rispetto non l’aveva mai perso.

Le parole restano. Sono preziose. Non puoi sciuparle o, peggio, rimangiart­ele. Le parole restano. Agli altri, quelli che non capivano, quella di Frank pareva improntitu­dine, arroganza. E allora anche un pezzo su Pellegrino Diotallevi, faccendier­e dal passato impresenta­bile, diventava peggio che scalare l’Everest. Dire le cose come stanno non si fa in quest’Italia affogata nel liquido del glamour e dell’effimero. Dove conta dire la battuta giusta e pensare positivo. Roba che non faceva per lui. Con la direttrice del giornale entra subito in rotta di collisione. Meglio ascoltare un vecchio lp con Marisa, l’archivista. Viene dall’Argentina dei desapareci­dos, sa cos’è il dolore e gli uomini che si commuovono sul serio. La musica dell’altra parte dell’oceano e quella vicina di uno chansonnie­r napoletano che poteva essere il Charles Aznavour italiano e gli è bastato diventare Peppino Gagliardi. Senza perderci nulla.

Il protagonis­ta Frank sarebbe un idealista se ci fossero ancora gli ideali. Anche i suoi si sono dissolti

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