Le parole di Magris come bussola nel viaggio in Slovenia
C’è un’ambizione enciclopedica nelle scelte cinematografiche di Elisabetta Sgarbi, la voglia di documentare, pur nelle forme liberissime dell’affinità e non in quelle razionali del lemma, le tante facce di un mondo sempre più difficile da incasellare. E allora, le fotografie di Ghirri stanno vicine agli incontri con Luciano Emmer, gli affreschi del Romanino ai ricordi delle badanti rumene, i pescatori del delta del Po alle poesie d’amore.
Quasi inevitabile che i suoi legami con Trieste (cui aveva dedicato il notevole Il viaggio della signorina Vila) la spingessero a tornare in quelle terre, questa volta con L’altrove più vicino, viaggio-testimonianza sulla Slovenia e i suoi legami con la cultura italiana e carsica.
Presentato nella sezione Festa mobile, il documentario, nonostante le eleganti immagini di Arce Maldonado, privilegia come sempre nei film della Sgarbi le parole come bussola, quelle di Magris, di Rebula, di Rumiz, di Pahor (dette da Toni Servillo), del maestro Coretti e di altri ancora, usate come lanterne per illuminare un percorso evidente (i legami strettissimi tra i due Paesi) ma insieme complesso e tortuoso. E però capaci di emozionare grazie alla forza di alcuni dei suoi testimoni e a quell’andamento volutamente rapsodico che sorprende lo spettatore e insieme lo conquista.
Più tradizionale il documentario Faithfull che Sandrine Bonnaire ha dedicato alla musa degli Stones agli inizi della sua carriera, anche lui nella sezione Festa mobile. O almeno, tradizionale nella struttura (che alterna interviste di ieri e di oggi a materiali di repertorio) ma non nella volontà di scavare dentro un personaggio capace di raccontare con scioccante sincerità i suoi momenti più neri (la tossicodipendenza, l’anoressia, la povertà, la solitudine), che rivendica con rassegnato orgoglio, senza rimpianti né recriminazioni per le proprie scelte.
Una vita non certo lineare o equilibrata, che la Bonnaire restituisce sullo schermo grazie anche a una serie di inquadrature del primissimo piano della cantante, mai perfettamente in asse, come se Marianne Faithfull volesse fuggire dallo schermo e insieme dall’impegno preso a raccontarsi.