«Chi vuole togliere il Nobel a San Suu Kyi è solo un esibizionista»
Roger Cohen: ha fatto errori, ma con lei la democrazia ha più chance
«Non riconoscere il dilemma di Aung San Suu Kyi, accusandola di tutto, togliendole le onorificenze che le sono state date in Occidente o chiedere di ritirarle il Nobel, come ha fatto Bob Geldof, a me pare un irresponsabile esibizionismo».
Roger Cohen ha scritto un commento molto polemico e controverso sul New York Times a proposito della situazione in Birmania e della persecuzione dei Rohingya. Dove se non difende, cerca di mettersi nei panni e di capire la posizione cauta assunta dal Premio Nobel della Pace nei confronti della repressione contro la comunità islamica.
«C’è un malinteso di fondo — dice Cohen al telefono dagli Stati Uniti — su quali siano i veri poteri di San Suu Kyi e a che punto è la transizione verso la democrazia in Birmania. I militari hanno tenuto il controllo dei gangli vitali del potere. Nella migliore delle ipotesi, siamo in presenza di una quasi democrazia e Aun San Suu Kyi è costretta a camminare su un percorso strettissimo, dove basta poco a perdere tutto, mandando in fumo il lavoro di una vita per la libertà e la democrazia».
Però, accettando una posizione priva di potere reale, ha fornito un volto per bene ai militari.
«Kofi Annan mi ha detto che in Occidente “abbiamo creato una santa, ma poi la santa ha cominciato a far politica e questo non ci è piaciuto”. Sicuramente San Suu Kyi da politico ha commesso molti errori. Sui Rohingya ha tenuto una posizione opaca, rifiutandosi anche di usare il termine, quindi accettando implicitamente il punto di vista della maggioranza buddhista che li considera una identità inventata. Questo significa che lei avalla tutto quello che fanno i militari? No. Siamo in mezzo a un processo».
Resta che i Rohingya sono stati perseguitati, massacrati, costretti a fuggire dai loro villaggi.
«Non è stata lei a ordinare il massacro, né aveva il potere di fermarlo. Ciò che è accaduto è più complesso di quanto pensiamo. C’è stato un attacco grave di un gruppo Rohingya ribelle contro una stazione di polizia, che ha causato morti e feriti. Certo, se perseguiti una popolazione a lungo, prima o poi questa insorge in armi e se poi addirittura neghi la loro identità, quando rispondi ai loro attacchi le cose sfuggono di mano. Credo però che fin quando lei rimane al suo posto il processo possa andare avanti».
Che deve fare l’Occidente? Perché ti esprimi contro le sanzioni, che vengono evocate da più parti?
«La Birmania è un Paese grande due volte la Germania, ma ha solo 54 milioni di abitanti, mentre da un lato e dall’altro dei suoi confini ci sono 2,5 miliardi di cinesi e indiani. Il senso di accerchiamento è antico. È anche una nazione con una forte maggioranza buddhista, che oggi si sente vulnerabile a una minaccia globale chiamata islamizzazione: Afghanistan, Bangladesh, Pakistan, Indonesia. I Rohingya, anche loro musulmani, hanno finito per incarnare questo pericolo. In questo contesto, penso che le sanzioni metterebbero ulteriormente in ginocchio l’economia e finirebbero per esacerbare gli animi, accentuando il senso di solitudine dei birmani e bloccando la democratizzazione. Non ultimo, metterebbe il Paese alla mercé della Cina, che vuole controllare la Birmania perché attraverso quella avrebbe pieno accesso allo stretto di Malacca».
Nel commento fai un collegamento con la Jugoslavia degli anni Novanta. Perché?
«Mi ha colpito quanto sia esplosiva la sola parola Rohingya in Birmania, dove la maggioranza buddhista nega che ci sia dietro una storia culturale e parla d’identità immaginaria. È lo stesso parossismo nazionalista dei serbi, che definivano inesistenti i musulmani bosniaci o i kosovari albanesi. Ma come ha detto Benedict Anderson, tutte le nazioni sono “comunità immaginate”. Se i Rohingya pensano di esistere, esistono. In più, come ho spesso spiegato ai serbi e come spiego in Israele, più opprimi una popolazione, più forte diventa il suo senso di identità nazionale e la loro radicalizzazione. Che poi è quello che sta accadendo con i Rohingya, che soffrono ai confini con il Bangladesh. Non possiamo negare che esistano e farebbe bene papa Francesco a usare il termine durante la sua visita».
La «Signora» In Occidente abbiamo creato una santa, poi ha iniziato a fare politica e questo non ci è piaciuto