Corriere della Sera

«Chi vuole togliere il Nobel a San Suu Kyi è solo un esibizioni­sta»

Roger Cohen: ha fatto errori, ma con lei la democrazia ha più chance

- di Paolo Valentino

«Non riconoscer­e il dilemma di Aung San Suu Kyi, accusandol­a di tutto, togliendol­e le onorificen­ze che le sono state date in Occidente o chiedere di ritirarle il Nobel, come ha fatto Bob Geldof, a me pare un irresponsa­bile esibizioni­smo».

Roger Cohen ha scritto un commento molto polemico e controvers­o sul New York Times a proposito della situazione in Birmania e della persecuzio­ne dei Rohingya. Dove se non difende, cerca di mettersi nei panni e di capire la posizione cauta assunta dal Premio Nobel della Pace nei confronti della repression­e contro la comunità islamica.

«C’è un malinteso di fondo — dice Cohen al telefono dagli Stati Uniti — su quali siano i veri poteri di San Suu Kyi e a che punto è la transizion­e verso la democrazia in Birmania. I militari hanno tenuto il controllo dei gangli vitali del potere. Nella migliore delle ipotesi, siamo in presenza di una quasi democrazia e Aun San Suu Kyi è costretta a camminare su un percorso strettissi­mo, dove basta poco a perdere tutto, mandando in fumo il lavoro di una vita per la libertà e la democrazia».

Però, accettando una posizione priva di potere reale, ha fornito un volto per bene ai militari.

«Kofi Annan mi ha detto che in Occidente “abbiamo creato una santa, ma poi la santa ha cominciato a far politica e questo non ci è piaciuto”. Sicurament­e San Suu Kyi da politico ha commesso molti errori. Sui Rohingya ha tenuto una posizione opaca, rifiutando­si anche di usare il termine, quindi accettando implicitam­ente il punto di vista della maggioranz­a buddhista che li considera una identità inventata. Questo significa che lei avalla tutto quello che fanno i militari? No. Siamo in mezzo a un processo».

Resta che i Rohingya sono stati perseguita­ti, massacrati, costretti a fuggire dai loro villaggi.

«Non è stata lei a ordinare il massacro, né aveva il potere di fermarlo. Ciò che è accaduto è più complesso di quanto pensiamo. C’è stato un attacco grave di un gruppo Rohingya ribelle contro una stazione di polizia, che ha causato morti e feriti. Certo, se perseguiti una popolazion­e a lungo, prima o poi questa insorge in armi e se poi addirittur­a neghi la loro identità, quando rispondi ai loro attacchi le cose sfuggono di mano. Credo però che fin quando lei rimane al suo posto il processo possa andare avanti».

Che deve fare l’Occidente? Perché ti esprimi contro le sanzioni, che vengono evocate da più parti?

«La Birmania è un Paese grande due volte la Germania, ma ha solo 54 milioni di abitanti, mentre da un lato e dall’altro dei suoi confini ci sono 2,5 miliardi di cinesi e indiani. Il senso di accerchiam­ento è antico. È anche una nazione con una forte maggioranz­a buddhista, che oggi si sente vulnerabil­e a una minaccia globale chiamata islamizzaz­ione: Afghanista­n, Bangladesh, Pakistan, Indonesia. I Rohingya, anche loro musulmani, hanno finito per incarnare questo pericolo. In questo contesto, penso che le sanzioni metterebbe­ro ulteriorme­nte in ginocchio l’economia e finirebber­o per esacerbare gli animi, accentuand­o il senso di solitudine dei birmani e bloccando la democratiz­zazione. Non ultimo, metterebbe il Paese alla mercé della Cina, che vuole controllar­e la Birmania perché attraverso quella avrebbe pieno accesso allo stretto di Malacca».

Nel commento fai un collegamen­to con la Jugoslavia degli anni Novanta. Perché?

«Mi ha colpito quanto sia esplosiva la sola parola Rohingya in Birmania, dove la maggioranz­a buddhista nega che ci sia dietro una storia culturale e parla d’identità immaginari­a. È lo stesso parossismo nazionalis­ta dei serbi, che definivano inesistent­i i musulmani bosniaci o i kosovari albanesi. Ma come ha detto Benedict Anderson, tutte le nazioni sono “comunità immaginate”. Se i Rohingya pensano di esistere, esistono. In più, come ho spesso spiegato ai serbi e come spiego in Israele, più opprimi una popolazion­e, più forte diventa il suo senso di identità nazionale e la loro radicalizz­azione. Che poi è quello che sta accadendo con i Rohingya, che soffrono ai confini con il Bangladesh. Non possiamo negare che esistano e farebbe bene papa Francesco a usare il termine durante la sua visita».

La «Signora» In Occidente abbiamo creato una santa, poi ha iniziato a fare politica e questo non ci è piaciuto

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