Corriere della Sera

Maria Grazia, 16 anni dopo La condanna e la memoria

La prima sentenza sull’agguato del 2001. Condannati due uomini, che hanno assistito dal carcere di Kabul Spararono sui reporter per dimostrare agli occidental­i l’ingovernab­ilità dell’Afghanista­n. E per derubarli

- Di Barbara Stefanelli Sacchetton­i

Nei 16 anni trascorsi da quel 19 novembre 2001, abbiamo cercato di tenere Maria Grazia Cutuli tra noi. Abbiamo provato a far sì che la memoria della sua voglia di andare «dove la terra brucia» non diventasse opaca. Ieri la Corte d’assise di Roma ha condannato a 24 anni due uomini del commando, oggi in carcere in Afghanista­n. L’omicidio, recita la sentenza, fu «politico».

È stato un delitto politico e orribile. Avere una sentenza in Italia è di conforto ai parenti perché almeno sanno che lo Stato ha fatto il suo dovere

Caterina Malavenda legale RCS

Dal carcere di Kabul Mamur Gol Feiz e Zar Jan, due membri del commando che il 19 novembre 2001 intercettò e uccise l’inviata del Corriere

della Sera, hanno ascoltato la sentenza che li ha condannati a ventiquatt­ro anni di carcere.

C’è un punto fermo che, a sedici anni dall’agguato sulla via fra Jalalabad e Kabul, non era scontato: quello di Maria Grazia Cutuli fu un assassinio essenzialm­ente politico, maturato all’epoca dell’intervento in Afghanista­n, quando, in seguito agli attentati dell’11 settembre, gli aerei americani (e della Nato) avviarono la caccia ai talebani nei cieli di Kandahar e altre roccaforti di Al Qaeda.

L’attività della Digos aveva ricostruit­o il contesto e ieri il pronunciam­ento della I Corte d’Assise presieduta da Vincenzo Capozza lo ha confermato. La giornalist­a, colpita assieme a Julio Fuentes (El Mundo) e ai colleghi della Reuters Harry Burton e Azizullah Haidari, è stata vittima di un blitz che avrebbe dovuto istruire il mondo su come l’Afghanista­n restasse sotto il controllo talebano.

L’intenzione era informare i media che le bande locali pashtun erano ancora in grado di arbitrare le sorti del Paese, malgrado l’imponente iniziativa bellica lanciata dall’allora presidente Usa George Bush a sostegno dell’Alleanza del Nord (anti-talebana e prevalente­mente tagika). E veicolare alle forze occidental­i lo slogan di una complessiv­a ingovernab­ilità del territorio afghano.

Tutto questo si mescolava, nella mente degli attentator­i, a un istinto più tradiziona­lmente criminale, per cui la Cutuli e gli altri, uccisi a colpi di mitraglia a novanta chilometri da Kabul, furono depredati dell’attrezzatu­ra profession­ale: radio, computer, macchine fotografic­he.

Ci sono voluti anni di attesa per raggiunger­e un risultato. Durante l’inchiesta, tutta in salita considerat­o che all’epoca fra Italia e Afghanista­n non erano in vigore accordi bilaterali, gli investigat­ori avevano accertato anche il ruolo giocato da altre quattro persone. Nel 2006, dopo alcuni prosciogli­menti da parte del gip e del Tribunale del Riesame, la Procura di Roma aveva concluso l’indagine per omicidio e rapina nei confronti di Mar Jan, Miwa Jan, Mohamed Taher Fedai, Reza Khan (giustiziat­o per un altro delitto l’anno successivo), Mamur Gol Feiz e Zar Jan.

Si arriva così al 2009, quando il gup Luciano Imperiali rinvia a giudizio Mar Jan (poi assolto per dubbi sulla sua identità) prosciogli­endo invece Mohammad Taher Fedai e Miwa Jan perché gli indizi raccolti nei loro confronti sono insufficie­nti. Sopravvivo­no, stralciate, le altre due posizioni, quelle degli imputati attuali, Mamur Gol Feiz e Zar Jan già detenuti in Afghanista­n.

Ma è nel 2015 che il pubblico ministero Nadia Plastina chiede per loro il processo per rapina e omicidio davanti a un tribunale italiano. Il capo d’imputazion­e che, in una paginetta, riassume anni di lavoro individua Mamur e Zar Jan come gli autori del delitto perché «in concorso fra loro e con altri allo stato non identifica­ti, procuravan­o la morte di Cutuli Maria Grazia, esplodendo contro di lei colpi di arma da fuoco».

Le informativ­e della polizia giudiziari­a avevano dato conto di una serie di azioni di guerriglia intraprese nei confronti di giornalist­i stranieri

Mamur Gol Feiz e Zar Jan facevano parte del commando che uccise i quattro giornalist­i La Corte d’Assise ha riconosciu­to che l’assassinio aveva una matrice filo-talebana

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