Corriere della Sera

SEDICI ANNI DOPO LA VERITÀ E IL VUOTO

- Di Barbara Stefanelli

In questi 16 anni o poco più trascorsi da quel 19 novembre 2001 e da quella gola afghana, abbiamo cercato di tenere Maria Grazia Cutuli tra noi, in mezzo a noi. Abbiamo provato a far sì che la memoria della sua faccia — della sua voglia di andare «dove la terra brucia», come diceva un po’ scherzando e un po’ no — non diventasse opaca, non si disperdess­e tra le righe. Per questo la sentenza è stata un’emozione forte, ieri, per tutti. Così come è stato, ancora una volta, doloroso ascoltare le parole della pm Nadia Plastina quando in aula ha ripercorso le ore prima e dopo l’esecuzione a mitragliat­e che lasciò il corpo di quattro reporter sul ciglio della strada verso Kabul. Accanto a Maria Grazia c’erano Julio Fuentes, di El Mundo, l’australian­o Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari, dell’agenzia Reuters.

La sentenza della prima corte d’assise di Roma per Mamur Gol Feiz e Zar Jan (24 anni per concorso in omicidio e concorso in rapina) non riconsegna la nostra compagna di lavoro all’appartamen­to milanese che aveva lasciato in ottobre per il Medio Oriente e che in parte aveva arredato con pezzi acquistati durante precedenti spedizioni in Afghanista­n — il tappeto, le sedie gemelle rasoterra, gli specchi. Non riconsegna la persona che amavamo al tempo che non ha avuto. Il vuoto resta, nel cuore e nella testa. Restano le domande che ci facevamo, ancora trentenni: restano sospesi i dubbi e i progetti di un’età che sembrava offrirci tutto per possibilit­à.

Tuttavia la condanna dimostra alla famiglia, alle sorelle e al fratello, che lo Stato Italiano c’è stato. C’è stato e nonostante lo sgomento di alcune fasi di rinvii e ritardi - ha infine fatto la sua parte affinché non sparissero le tracce di un assassinio avvenuto in un’epoca che oggi sembra lontana, quasi irreale, mentre l’Afghanista­n liberato dai talebani in quei giorni concitati del 2001 è tornato nel caos. O forse non ne è mai uscito veramente. Mamur Gol Feiz e Zar Jan, di origine pashtun, sono da tempo in una cella afghana dove stanno scontando pene a 16 e 18 anni. Un terzo uomo, Reza Kahn, fu giustiziat­o nel 2007 non solo per la morte dei quattro inviati.

Noi continuere­mo a tenerci stretti al valore del lavoro di una giornalist­a che desiderava raccontare le storie, raccoglier­e le notizie, attraversa­re le retrovie dove le notizie prendono forma: Merigrace, che spingeva quel suo sguardo assieme incerto e coraggioso lungo i confini immaginand­o — sono sicura — di poterli attraversa­re tutti, prima o poi.

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