Corriere della Sera

Il ballo di Verdi scuote l’America di fine Ottocento

- Di Gian Mario Benzing

Ambientate­lo dove vi pare, anziché nella Svezia delle origini: nella Pomerania del XVII secolo, sul Caucaso o nella Firenze medicea, come le vicende della censura ci raccontano, o in epoche che né Verdi né i censori potevano immaginare. Un ballo in maschera resta quello che è: nero che dilaga nei doppi fondi dell’amore e della colpa, tra horror e risata. Alla fine conta solo se la sua musica «riluce di tetro», come dice il libretto, o no. Ecco: nel Ballo che inaugura la stagione alla Fenice di Venezia, in scena fino al 3 dicembre, il tetro riluce eccome. Il regista Gianmaria Aliverta traspone l’opera nell’America del tardo Ottocento, idea non nuova, per rilevarvi un cupo attrito razziale, neri schiavizza­ti e roghi da Ku Klux Klan; con scene scavate tra buio e lampi radenti — prima che la fiaccola di una gigantesca Statua della Libertà non le faccia scadere nel kitsch.

Soprattutt­o, è il direttore, Myung-Whun Chung, ad esaltare la luce del tetro: cioè l’empito sinfonico, le tenebre sferzanti nell’antro della maga o nel preludio del II Atto, l’irruzione di Renato, l’attacco travolgent­e di «Eri tu che macchiavi quell’anima», ma sempre con un suono profondo e limpido. Ha un garbo tutto suo, Chung, anche nella potenza del dramma e di questo garbo permea le voci migliori: Francesco Meli (Riccardo), vibrante nello squillo e soavissimo nel tornire arcate e sfumature; Serena Gamberoni, Oscar molto misurato; il tagliente Renato di Vladimir Stoyanov; e, a parte l’Amelia sforzata e approssima­tiva di Kristin Lewis, il bel timbro del congiurato Samuel, il basso coreano Simon Lim.

 ??  ?? Statua della Libertà Una scena di «Un ballo in maschera»
Statua della Libertà Una scena di «Un ballo in maschera»

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy