Quel buio pirandelliano è un universo di finzioni
L’uomo dal fiore in bocca e altri strani casi: cosa saranno questi «altri casi strani»? Lo spettacolo è in scena al Ghione di Roma. Da mesi penso a Pirandello. Ero tornato a leggere «Pena di vivere così», lo consideravo il più bel racconto italiano del Novecento. Ora non avrei potuto continuare a crederlo in cima alla classifica. Che cosa era successo nei tanti anni da quando l’avevo letto per la prima volta? Sta succedendo che con il passare degli anni, anzi dei giorni, ogni giorno è come un anno. Il Novecento si allontana da noi in modo vertiginoso. Tutto il Novecento? No, non tutto. Il Novecento espressionista, quegli scrittori che si sono concentrati sulla lingua per conferirle dignità e lustro nuovi: da Pirandello a Landolfi o Manganelli.
Quante volte nei racconti dello scrittore siciliano il soggetto viene non solo posposto, ma posposto non già dopo un’altra parola, o una mezza frase, bensì dopo un lungo periodo? E cosa sono quelle insistenze, quel richiamo di forze, quei «contenendo in sé, esso solo, il germe di una vera e propria creazione»? Alla lunga, ogni espressionismo diventa stucchevole. Dapprima colpisce, poi stanca — anche il più raffinato e per così dire occulto.
Ogni lingua sfavillante finisce con il nascondere (con l’assorbire) ciò che essa intende rivelare. In teatro le cose vanno in modo diverso, ne sono causa la scena, il regista, gli attori. Se vogliono, esaltano; ma se vogliono, smorzano. Patrick Rossi Gastaldi è un regista che non smorza nel senso del suono, bensì in quello della luce: un regista che misura le forze e come il Pirandello-personaggio della novella «La tragedia di un personaggio» (uno dei casi strani), un attore può avvicinarlo a sé ma anche allontanarlo. Può innalzarlo e può abbassarlo. Rossi Gastaldi non è un moralista, non lo è nei confronti del testo. Egli di continuo rimescola le carte. Qual è il tema di questo Pirandello — al di là della lingua così cavillosa, così risonante? Sia ne «L’uomo dal fiore in bocca», come tutti sappiamo, sia in «Piuma», in «Pubertà», in «Da sé» (l’eloquenza perfino di un titolo), il tema è il buio prossimo venturo. I personaggi di Pirandello stanno per morire, o di morire hanno scelto? Allora le luci si abbassano, potremmo vedere la luna. Se una porta laterale del teatro si apre è un oltraggio: la più modesta delle realtà irrompe a distrarre quel così compatto e un poco pretestuoso universo di finzioni che egli, il regista, ha cucito per dissimularne la trama.
Di fronte a Pirandello, ai suoi eccessi, lo spettacolo non si tira indietro. Ma noi ce ne accorgiamo solo a tratti, rapsodicamente. Quando è più o meno bravo quell’attore a smorzare, a dimenticare il dolore che lo incalza, il pensiero che lo divora. Edoardo Siravo è coerente e fedele al «teatro all’antica italiano», quasi in lotta con il regista — nella sua veste di capocomico. Gli sono vicini la follemente vibratile, come una piuma, Gabriella Casali; la pubescente e già ardita, anzi spavalda, Stefania Masala; il rude e così sperduto Carlo Di Maio, l’uomo che «fa da sé».