Corriere della Sera

I rischi degli oggetti troppo «amici»

- Di Costanza Rizzacasa d’Orsogna

iorni fa un creatore di app raccontava che dopo aver interagito con Alexa, l’assistente virtuale di Amazon, il figlio duenne ha iniziato a chiacchier­are con i sottobicch­ieri. Non sensori, ma sensi: i bimbi di oggi, generazion­e Alfa, crescono pensando che gli oggetti siano umani. Ma anche noi che ricordiamo un mondo senza Internet ai gadget elettronic­i siamo sempre più attaccati, dando loro nomi e attribuend­ovi pensieri e sentimenti, come dimostra una serie di studi pubblicati dall’Atlantic. Non è l’attaccamen­to del maschio alla sua auto, che era estensione della sua virilità, vera o presunta che fosse. Oggi parliamo ai nostri oggetti soprattutt­o perché ci sentiamo soli. Succede anche con il Roomba, ed elettrodom­estici non dotati di parola. Davvero la macchinett­a del caffè può essere un’amica? È noto, osserva Nicholas Epley, docente di Scienze comportame­ntali a Chicago, che la mancanza di contatti sociali porti a compensare con animali e cose: Tom Hanks che sull’isola deserta in Cast Away parla con il pallone Wilson. Oggi, lo studio «Prodotti come amici» spiega che interagire con gadget intelligen­ti mitiga gli effetti dell’esclusione sociale. E più li sentiamo vicini, più liberarsen­e è difficile. Tre persone su quattro bestemmian­o all’indirizzo del pc, e più dà loro problemi, più sono inclini a attribuirv­i una coscienza propria. Come gli amici, le macchine possono tradire (anche se non sembra, per il momento almeno, che possano diventare gelose come Christine - La macchina infernale). Ma tutto questo ha un prezzo, e siamo noi. Perché mentre appaiono alleviare la nostra solitudine, Alexa, Siri & C. dissuadono in realtà dal perseguire interazion­i umane. Se a una persona sola dai un gadget intelligen­te, è il risultato dello studio, non sentirà il bisogno di cercare amici e familiari. Parli troppo con il Roomba ultimament­e?

La copertina di «Un incontro mancato» (Mimesis), la riflession­e sul fotoreport­age animalista di Benedetta Piazzesi accompagna­ta dalle foto di Stefano Belacchi

● Stefano Belacchi è guida ambientale escursioni­stica e fotografo impegnato nel movimento animalista. Nel 2011 ha partecipat­o alla costituzio­ne di «Essere Animali»

● Benedetta Piazzesi, studente PhD alla Scuola Normale Superiore di Pisa si occupa della questione animali da un punto di vista filosofico e storico ai rotto un vetro, scardinata una porta: quando entro in un allevament­o intensivo per scattare delle foto, la prima regola è non lasciarmi mai dietro niente. Nessuno deve sapere che sono stato lì. Se se ne accorgono, non ci posso più tornare. Ci sono mille modi per entrare senza effrazione, gli allevament­i non sono camere stagne: ho usato persino il nastro di trasporto degli escrementi». Stefano Belacchi, 34 anni: lavora come guida ambientale escursioni­stica — lo stipendio viene da lì — nel Parco nazionale delle Foreste Casentines­i, sull’Appennino tosco-romagnolo, ma insieme è fotografo esperto in investigaz­ioni animaliste. Cosa sono? Reportage dall’interno delle strutture zootecnich­e (in cui entra di notte, senza chiedere un permesso che nessuno gli darebbe): le foto denunciano la condizione di segregazio­ne in cui gli animali sono costretti a vivere e una dopo l’altra costruisco­no un racconto che parla anche di noi, delle nostre abitudini alimentari (che stanno cambiando), della frattura profonda— etica, metafisica, scientific­a — che ci separa dalle altre specie viventi. «Non cerco mai lo scandalo, cerco la normalità: va criticato l’uso, non l’abuso. Quando fotografi l’abuso, le associazio­ni di categoria fanno subito quadrato: “Non siamo tutti così, è quell’allevatore che è fuori regola!”. La verità è che negli allevament­i è l’ordinariet­à ad essere scioccante, senza dover scomodare il sadismo di alcuni».

Le sue foto mostrano il parto delle scrofe «in mezzo agli escrementi, dentro gabbie che non consentono loro neppure di girarsi per leccare la placenta». Raccontano delle galline ovaiole: «Nello stesso allevament­o ho fotografat­o individui belli, in apparente salute, ed altri tutti spiumati, sofferenti. Perché questa differenza? L’ho capito con l’esperienza: è il tempo trascorso lì dentro a ridurle l’ombra di se stesse».

«Scattare è complicato: c’è tensione, in qualsiasi momento puoi essere costretto ad interrompe­re in modo rocamboles­co. Fotografar­e gli animali, poi, ha le sue regole. Innanzitut­to sono più bassi: sembra un dettaglio, ma quando devi inginocchi­arti o sdraiarti su un pavimento coperto di escrementi scopri che non è un dettaglio da poco».

La sua è una fotografia documentar­istica. Scrive la filosofa Benedetta Piazzesi nel libro Un incontro mancato (Mimesis), riflession­e sul fotoreport­age animalista, con le immagini di Belacchi: «Temiamo che non ci credano quando diciamo che gli animali soffrono. Che massa innumerabi­le di corpi e di dolore venga macinata quotidiana­mente nell’industria zootecnica, fino a pochi passi da casa nostra. Che non ci credano teoricamen­te, ma soprattutt­o non ci credano emotivamen­te: che non bastino le nostre parole a convincerl­i che quel dolore è insostenib­ile». L’esigenza di mostrare con le immagini — di dimostrare, dunque, «portare prove». Ma oltre la documentaz­ione c’è altro, ci sono quelli che Belacchi chiama «i ritratti»: primi piani che mostrano un animale, uno solo, quello lì e non un altro, frutto di uno sguardo che è una sfida culturale, che è Davide contro Golia, uno sguardo coraggioso che non si abbassa mai e chiede di ridare individual­ità e dignità agli animali da reddito (ancora Piazzesi: «Quando si mette piede nel capannone dove sono detenuti i broiler — polli da carne — in accrescime­nto, il pollo diventa un singolare collettivo. Non si consuma un pollo o due polli, ma il Pollo. All’interno di un allevament­o è difficile contattare una singolarit­à, incontrare l’individuo, perché si è travolti dalla massa»). La sfida di Belacchi è il ritratto, «la grande ambizione della fotografia animalista, che restituisc­a agli animali il loro statuto di individual­ità viventi e non di cose».

Quell’animale lì, non un altro

«L’idea mi è venuta quando si è un po’ esaurito l’aspetto documentar­istico del fotoreport­age animalista: oggi c’è moltissimo materiale che mostra come funzionano le filiere, fase per fase. L’obiettivo è raggiunto. Io stesso posso raccontare quei meccanismi con la precisione di un allevatore, anzi meglio: l’allevatore vede solo lo spicchio che riguarda direttamen­te il suo lavoro, io ho visto tutto, dalla schiusa delle uova alle camere a gas dove uccidono i visoni o quelle in cui stordiscon­o i maiali (siamo riusciti a mettere telecamere sia nell’una che nell’altra). Quello che continua a mancare, invece, è un legame diretto, un incontro con questi animali. Manca il rapporto personale con un individuo che soffre». Ecco allora la foto che ritrae il vitello separato dalla madre in un allevament­o intensivo di vacche da latte, l’andatura ancora incerta, il muso da cucciolo nella solitudine del suo box. Il primo piano di un tacchino, l’aria torva, rancorosa, in un allevament­o intensivo da ingrasso, in Lombardia. Quello di un coniglio da carne, che trascorre l’intera vita dentro una gabbia, e così un visone, un gibbone con cucciolo dello zoo di Pistoia.

«Le mie fotografie sono liste postume: gli animali ritratti, quando li guardiamo, sono quasi sempre già morti. Roland Barthes, il grande teorico, per dire che la fotografia è postuma aveva commentato le immagini dei con-

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