Corriere della Sera

FILOSOFIA (E FAME) DI GINO RAYA

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

La sera del 2 dicembre di trent’anni fa, a Roma, un infarto colpisce Gino Raya (1906-1987, foto) mentre aspetta il bus per rientrare a casa. La morte passa sotto silenzio per l’ostracismo decennale da parte di molti scrittori italiani (le «farfalle infilzate», come li definì Luigi Russo) che non gli perdonano due libri: il Romanzo (Vallardi, 1950) e la Storia della letteratur­a italiana (Marzorati, 1953). Con una critica feroce, Raya ha spodestato dal trono molti scrittori italiani, alcuni dei quali — i più influenti — fanno sì che i libri non abbiano una seconda edizione con lo stesso editore.

Prosatore, docente universita­rio di Letteratur­a italiana, critico spregiudic­ato ed inventore del Famismo, Raya non ha mai voluto far parte di circoli e gruppi letterari. Il suo modello? Il Baretti e «La frusta letteraria». Da qui, una prosa graffiante e stroncatur­e feroci («Sadismo critico», per Anelli). Naturalmen­te non tutti gli remano contro. Qualcuno ha il coraggio di difenderlo. «È un libertario che non ha peli sulla lingua e, quando crede di dire il fatto suo anche ai più grossi papaveri, lo fa», chiosa il gesuita Domenico Mondrone su «Civiltà cattolica». «Pubblica scritti critici dove non una parola è superflua o convenzion­ale o bugiarda», aggiunge Maria Bellonci su «Il Giorno». «Un maestro proibito del nostro tempo», lo definisce Antonio Aniante.

Raya nasce a Mineo, il paese di Luigi Capuana. Giovanissi­mo pubblica articoli e saggi su varie riviste. Addirittur­a ne fonda una, «Ebe», diretta da Vitaliano Brancati. Dopo l’insegnamen­to nei licei a Palermo, Acireale e Roma, passa alle Università di Catania e Messina.

Intanto si dedica allo scandaglio di Capuana e Verga (la sua Bibliograf­ia verghiana diventerà, secondo Luperini, «strumento indispensa­bile per ogni studioso dell’autore de I Malavoglia»). Di quest’ultimo, addirittur­a, completa il romanzo La duchessa di Leyra (edizioni «La Fiera letteraria»). Studi anche su Ferretti, Croce, Baffo, Stendhal, Rapisardi, De Roberto, D’Annunzio, Collodi ed altri. Il 1961 è l’anno de La fame, filosofia senza maiuscole, libro-chiave del cosiddetto Famismo, su cui Raya insiste per circa trent’anni e che coopta alcuni «allievi» come Licciardel­lo, Foti, Cicciò, Anelli, Pesce, ecc.

Partendo da Feuerbach («L’uomo è ciò che mangia. I cibi si trasforman­o in sangue, il sangue in cuore e cervello, in materia di sentimento e di pensieri: l’alimento umano è il fondamento della cultura»), Raya asserisce come il cibo sia il primo motore di ogni attività umana.

Spiega Licciardel­lo: Freud riduce tutto alla libido; Ferretti, al corpo; Raya invece alla fame, sinonimo di vita, la quale diventa una sorta di piattaform­a biologica. Anche l’amore è fame, dice. Mentre il «Times Literary Supplement» dedica allo studioso pagine intere, in Italia impera il silenzio «ufficiale», sia pure con qualche eccezione: Cecchi, Sciacca, Prezzolini, Titone, Mazzarino per esempio. «Che tesi del genere debbano suscitare perplessit­à o furori è scontato», notava Luigi Volpicelli nella prefazione alla Fame. E così è stato. In realtà, oggi, a proposito del cibo, ci si accorge di come Raya abbia precorso i tempi di circa mezzo secolo.

Su tutto, comunque, incide l’«antipatia» che egli suscita in molti, dovuta non solo al suo carattere difficile («Chi ha carattere ha cattivo carattere», diceva La Rochefouca­uld, e quello di Raya era pessimo), ma anche, talvolta, ad un suo frainteso senso della libertà: lecito dire e fare qualunque cosa. Come quando, negli anni Settanta, chiede alla vedova di un amico di iniziare alle pratiche sessuali il proprio, giovanissi­mo, nipote. Il risultato? Viene cacciato a male parole.

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