FILOSOFIA (E FAME) DI GINO RAYA
La sera del 2 dicembre di trent’anni fa, a Roma, un infarto colpisce Gino Raya (1906-1987, foto) mentre aspetta il bus per rientrare a casa. La morte passa sotto silenzio per l’ostracismo decennale da parte di molti scrittori italiani (le «farfalle infilzate», come li definì Luigi Russo) che non gli perdonano due libri: il Romanzo (Vallardi, 1950) e la Storia della letteratura italiana (Marzorati, 1953). Con una critica feroce, Raya ha spodestato dal trono molti scrittori italiani, alcuni dei quali — i più influenti — fanno sì che i libri non abbiano una seconda edizione con lo stesso editore.
Prosatore, docente universitario di Letteratura italiana, critico spregiudicato ed inventore del Famismo, Raya non ha mai voluto far parte di circoli e gruppi letterari. Il suo modello? Il Baretti e «La frusta letteraria». Da qui, una prosa graffiante e stroncature feroci («Sadismo critico», per Anelli). Naturalmente non tutti gli remano contro. Qualcuno ha il coraggio di difenderlo. «È un libertario che non ha peli sulla lingua e, quando crede di dire il fatto suo anche ai più grossi papaveri, lo fa», chiosa il gesuita Domenico Mondrone su «Civiltà cattolica». «Pubblica scritti critici dove non una parola è superflua o convenzionale o bugiarda», aggiunge Maria Bellonci su «Il Giorno». «Un maestro proibito del nostro tempo», lo definisce Antonio Aniante.
Raya nasce a Mineo, il paese di Luigi Capuana. Giovanissimo pubblica articoli e saggi su varie riviste. Addirittura ne fonda una, «Ebe», diretta da Vitaliano Brancati. Dopo l’insegnamento nei licei a Palermo, Acireale e Roma, passa alle Università di Catania e Messina.
Intanto si dedica allo scandaglio di Capuana e Verga (la sua Bibliografia verghiana diventerà, secondo Luperini, «strumento indispensabile per ogni studioso dell’autore de I Malavoglia»). Di quest’ultimo, addirittura, completa il romanzo La duchessa di Leyra (edizioni «La Fiera letteraria»). Studi anche su Ferretti, Croce, Baffo, Stendhal, Rapisardi, De Roberto, D’Annunzio, Collodi ed altri. Il 1961 è l’anno de La fame, filosofia senza maiuscole, libro-chiave del cosiddetto Famismo, su cui Raya insiste per circa trent’anni e che coopta alcuni «allievi» come Licciardello, Foti, Cicciò, Anelli, Pesce, ecc.
Partendo da Feuerbach («L’uomo è ciò che mangia. I cibi si trasformano in sangue, il sangue in cuore e cervello, in materia di sentimento e di pensieri: l’alimento umano è il fondamento della cultura»), Raya asserisce come il cibo sia il primo motore di ogni attività umana.
Spiega Licciardello: Freud riduce tutto alla libido; Ferretti, al corpo; Raya invece alla fame, sinonimo di vita, la quale diventa una sorta di piattaforma biologica. Anche l’amore è fame, dice. Mentre il «Times Literary Supplement» dedica allo studioso pagine intere, in Italia impera il silenzio «ufficiale», sia pure con qualche eccezione: Cecchi, Sciacca, Prezzolini, Titone, Mazzarino per esempio. «Che tesi del genere debbano suscitare perplessità o furori è scontato», notava Luigi Volpicelli nella prefazione alla Fame. E così è stato. In realtà, oggi, a proposito del cibo, ci si accorge di come Raya abbia precorso i tempi di circa mezzo secolo.
Su tutto, comunque, incide l’«antipatia» che egli suscita in molti, dovuta non solo al suo carattere difficile («Chi ha carattere ha cattivo carattere», diceva La Rochefoucauld, e quello di Raya era pessimo), ma anche, talvolta, ad un suo frainteso senso della libertà: lecito dire e fare qualunque cosa. Come quando, negli anni Settanta, chiede alla vedova di un amico di iniziare alle pratiche sessuali il proprio, giovanissimo, nipote. Il risultato? Viene cacciato a male parole.