Corriere della Sera

I Cinque Stelle e il piano B

IL MOVIMENTO IL RETROSCENA La scelta di realpoliti­k nell’era di Di Maio: consensi a rischio senza una fase costruttiv­a

- Di Massimo Franco

La tentazione dei Cinque Stelle per il dopo elezioni per evitare l’ingovernab­ilità: sostenere un esecutivo del capo dello Stato.

La nebbia degli slogan tradiziona­li vela la vera strategia. Ci sono un obiettivo e una tentazione, nel futuro prossimo del Movimento 5 Stelle. Con la nuova legge elettorale e con le diffidenze e le riserve persistent­i, difficilme­nte raggiunger­à percentual­i tali da permetterg­li di governare. L’obiettivo, dunque, è una vittoria minore ma ugualmente ambiziosa: avere seggi sufficient­i per impedire che si formi un esecutivo senza o peggio contro la formazione di Luigi Di Maio e di Davide Casaleggio. In quel caso diventereb­be prepotente la vera tentazione dei Cinque Stelle, accarezzat­a per non restare fuori dai giochi: appoggiare un «governo del presidente», se di fronte al pericolo dell’ingovernab­ilità il capo dello Stato, Sergio Mattarella, dovesse fare un appello al senso di responsabi­lità di tutte le forze politiche.

È una ipotesi appena accennata, e tenuta di riserva, sapendo che gli effetti del sistema elettorale rappresent­ano un’incognita. Ma tutti i sondaggi, ufficiali e riservati, concordano nel ritenere improbabil­e che emerga dalle urne una maggioranz­a. Può darsi che in quel caso il Quirinale, dopo un incarico esplorativ­o senza esito, rimandi il Paese al voto: i Cinque Stelle non si metterebbe­ro di traverso. Oppure è possibile che chieda il sostegno a un governo plasmato nel segno dell’emergenza. In questo caso, a sorpresa potrebbe trovare la sponda dei seguaci di Beppe Grillo. Non si tratta di un soprassalt­o di generosità nei confronti dell’odiata «partitocra­zia».

Nella scelta si indovina una buona dose di realpoliti­k: la consapevol­ezza che il Movimento deve passare da una fase di opposizion­e totale a una stagione più costruttiv­a. Anche perché i suoi consensi, che ormai si attestano tra un quarto e un terzo circa dell’elettorato, sono considerat­i in bilico: o vengono spesi in qualcosa di diverso dalla pura contestazi­one del passato, o rischiano di calare bruscament­e verso percentual­i inferiori al venti per cento. La sfida di governo sarebbe dunque una sorta di antidoto a un ripiegamen­to del quale si avvertono qui e là i sintomi. D’altronde, la designazio­ne di Di Maio come candidato premier certifica, di per sé, la scommessa su un’uscita «moderata» dalla crisi e su un possibile approdo governativ­o.

Fa il paio con il ruolo marcatamen­te defilato assunto da Grillo nella nuova fase. La virata in materia di moneta unica, la posizione meno ostile alla Nato, la ricerca di rapporti con le istituzion­i finanziari­e e con il Vaticano sono tutti passaggi obbligati per tentare di scalfire il muro di diffidenza che il Movimento si è costruito intorno; e che finora lo proteggeva ma lo isolava, anche, dal virus del dialogo con gli altri. Il colloquio a Washington con il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, è stato del tutto casuale, è vero. Eppure ha creato un contatto prima inesistent­e. È stato organizzat­o in fretta e furia quando Di Maio ha saputo che l’ex ambasciato­re Usa presso la Santa Sede, Francis Rooney, col quale si doveva vedere, tardava perché si stava congedando da Parolin, negli Stati uniti per i lavori della conferenza episcopale americana.

In due ore, con un giro febbrile di telefonate, è stato combinato un incontro in Nunziatura non col leader dei Cinque Stelle, ma con Di Maio nelle vesti istituzion­ali di vicepresid­ente della Camera; e col patto di non chiamare né fotografi né giornalist­i: impegno rispettato. Quel colloquio col «primo ministro» di Francesco ha permesso di alzare il livello di un viaggio che per il resto aveva seminato qualche tensione tra la delegazion­e grillina e l’ambasciata italiana a Washington. L’esito di questa «strategia della moderazion­e» è ancora in chiaroscur­o. Dentro e soprattutt­o fuori dai confini italiani, il pregiudizi­o rimane diffuso e radicato. E quando i Cinque Stelle si accreditan­o come forza di governo,

La virata sull’euro, la posizione meno ostile alla Nato, la ricerca di rapporti con le istituzion­i finanziari­e e con il Vaticano sono passaggi obbligati per scalfire un muro di diffidenza Le scelte La squadra di governo sarà calibrata su criteri diversi rispetto al passato

subito si sentono chiedere chi candideran­no al ministero dell’Economia o agli Esteri.

Gli alleati occidental­i vogliono essere rassicurat­i. E non solo. Si è saputo che di recente alcuni parlamenta­ri del M5S si sono confrontat­i con una dozzina di investitor­i internazio­nali. Non è la prima volta: anche loro vogliono capire, al di là delle promesse e degli impegni verbali. Ma lo vogliono soprattutt­o gli italiani. Fino a Natale Di Maio batterà, partendo da Milano, l’intero Nord. Non è tanto per calamitare voti: gli basterebbe abbassare le difese e l’ostilità nei confronti del Movimento. Ma per smentire l’immagine di una formazione malata di dilettanti­smo e di estremismo, occorrerà qualcosa di più. Si tratta di bilanciare con profili più esperti e competenti una classe dirigente finora un po’ raccogliti­ccia; e di puntellare l’identikit troppo giovane dello stesso Di Maio.

La squadra di governo da presentare prima delle elezioni verrà calibrata su criteri diversi dal passato, almeno nelle intenzioni. Si potrebbe perfino arrivare a una sorta di preselezio­ne prima di votare per le Parlamenta­rie, che servono a formare attraverso la piattaform­a digitale Rousseau di Casaleggio le liste per il Parlamento. Sarebbe una cesura col passato, da spiegare e far digerire ai militanti. Eppure non c’è alternativ­a: la resa dei conti con la realtà sta arrivando anche per il primo «partito-internet».

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Su Instagram Luigi Di Maio, 31 anni, ieri a Casalmaggi­ore (Cremona)

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