Corriere della Sera

«Armi nucleari, un passo indietro»

Il Papa ai giornalist­i: «Quando ho incontrato i Rohingya non ricordo che cosa ho detto, piangevo e anche loro»

- Di Gian Guido Vecchi

Un nuovo appello del Papa contro la minaccia nucleare. Sull’aereo di ritorno dal viaggio in Asia, Francesco ha ribadito che «siamo al limite della liceità. Sulle armi nucleari torniamo indietro». Apertura al dialogo con Pechino: «Un viaggio in Cina farebbe bene a tutti». E sull’incontro con i Rohingya: «Non ricordo che cosa ho detto. Piangevo e anche loro».

DAL VOLO PAPALE Il volo BG1213 da Dacca sorvola l’India verso Pakistan e Afghanista­n, quando Francesco raggiunge i giornalist­i in fondo all’aereo che lo riporta a Roma dopo sei giorni serrati tra Myanmar e Bangladesh. Gli chiedono se andrà anche in India e lui sorride: «Spero nel 2018, se sarò vivo!». È felice, spiega , «a me fa bene quando riesco a incontrare il popolo di un Paese, il popolo di Dio». Vuole concentrar­si sulle giornate appena vissute, «preferirei domande sul viaggio», ma risponde sulla crisi nucleare.

Santità, Giovanni Paolo II disse che la deterrenza nucleare era «moralmente accettabil­e». Lei ha detto che «lo stesso possesso» di armi nucleari è da condannare. Cosa è cambiato?

«È cambiata l’irrazional­ità. Nell’enciclica Laudato si’ ho parlato della custodia del creato. Dal tempo in cui San Giovanni Paolo II ha detto questo, sono passati 34 anni, nel nucleare si è andati oltre, e oggi siamo al limite della liceità. Questo si può discutere, ma è la mia opinione convinta: siamo al limite della liceità di avere e usare armi nucleari. Perché oggi, con un arsenale così sofisticat­o, si rischia la distruzion­e dell’umanità, o almeno di una sua buona parte. Cosa è cambiato? Gli armamenti nucleari sono cresciuti, sono sofisticat­i e anche crudeli, capaci di distrugger­e le persone senza toccare le strutture. Siamo al limite, e io mi faccio questa domanda, non come magistero pontificio, ma è la domanda che si fa il Papa: oggi è lecito mantenere gli arsenali nucleari come stanno? O per salvare il creato e l’umanità non è forse necessario tornare indietro? Pensiamo a Hiroshima e Nagasaki, la distruzion­e…».

Venerdì ha nominato a Dacca i Rohingya, la minoranza musulmana cacciata dall’esercito birmano. Avrebbe voluto poterlo fare anche nel Myanmar?

«Non è stata la prima volta, li ho nominati più volte all’Angelus in San Pietro. La domanda mi fa riflettere su come io cerco di comunicare. Per me la cosa più importante è che il messaggio arrivi. E per questo bisogna dire le cose passo passo, e ascoltare le risposte. Un adolescent­e in crisi può dire quello che pensa sbattendo la porta sul naso all’altro, e il messaggio non arriva. A me interessav­a che questo messaggio arrivasse. Ho visto che nel discorso ufficiale, se avessi detto quella parola, avrei chiuso la porta in faccia. Ma ho descritto la situazione, ho parlato dei diritti per tutti, nessuno escluso. Per poi permetterm­i, nei colloqui privati, di andare oltre. Sono rimasto soddisfatt­o dei colloqui. È vero, non ho avuto il piacere di chiudere la porta sul naso pubblicame­nte, ma ho avuto la soddisfazi­one di dialogare, e così il messaggio è arrivato».

Cosa sentiva quando ha chiesto loro perdono?

«Sapevo che avrei incontrato i Rohingya, per me era una condizione del viaggio. Qualcuno ha detto loro: salutate il Papa, non dite nulla! Li hanno messi in fila indiana, e non mi è piaciuto. E poi subito volevano cacciarli via, io mi sono arrabbiato e un po’ ho gridato — sono peccatore! — ho detto: rispetto! E loro sono rimasti lì. Mentre li ascoltavo uno ad uno, ho cominciato a sentire qualcosa dentro, non potevo lasciarli andare senza dire una parola. Non ricordo cosa ho detto, so che a un certo punto ho chiesto perdono. Piangevo, cercavo di fare in modo che non si vedesse, e anche loro piangevano».

Ha visto il generale birmano Min Aung Hlaing. Che incontro è stato?

«Distinguer­ei due tipi di incontri, quelli nei quali sono andato a trovare la gente e quelli in cui ho ricevuto gente. Questo generale ha chiesto di parlare con me, e io l’ho ricevuto. Non chiudo mai la porta: parlando si guadagna sempre. È stato un incontro civile. Ma io non ho negoziato la verità. Ho fatto in modo che lui capisse che una strada com’era nei brutti tempi, rinnovata oggi, non è percorribi­le».

Quando ha chiesto di anticipare l’incontro, non ha pensato volesse manipolarl­a? Ha usato la parola Rohingya con lui?

«Il dialogo è più importante del sospetto che volesse dire: noi qui comandiamo e veniamo prima di tutti. Ho usato le parole per far arrivare il messaggio, e quando è arrivato, ho osato dire tutto quello che dovevo. Intelligen­ti pauca».

Aung San Suu Kyi è stata criticata per non aver parlato dei Rohingya…

«Nel Myanmar è difficile criticare senza prima chiedersi: sarebbe stato possibile questo? La situazione politica è in un momento di transizion­e, le possibilit­à sono da valutare anche in questa ottica».

Sulla crisi hanno voluto inserirsi anche l’Isis e gruppi jihadisti…

«C’erano gruppi terroristi­ci che cercavano di approfitta­re dei Rohingya, che sono gente di pace. I militari giustifica­no il loro intervento per questi gruppi fondamenta­listi. Io non ho scelto di parlare con questa gente ma con le loro vittime: il popolo che da una parte soffriva di questa discrimina­zione e dall’altra era “difeso” dai terroristi, ma poveretti!».

È il suo terzo viaggio in Estremo Oriente, dà l’impression­e di girare intorno alla Cina…È in preparazio­ne una sua visita?

«Il viaggio in Cina non è in preparazio­ne, state tranquilli. Per il momento non lo è. Mi piacerebbe tanto visitare la Cina, non è una cosa nascosta. Le trattative con Pechino sono di alto livello culturale, scientific­o, e poi c’è il dialogo politico, soprattutt­o la vicenda della chiesa patriottic­a e di quella clandestin­a che si deve affrontare passo passo, con delicatezz­a. Ci vuole pazienza, ma le porte del cuore sono aperte e credo che farebbe bene a tutti un viaggio in Cina».

Il generale birmano ha chiesto di parlarmi, l’ho ricevuto. Ma io non negozio la verità Ci sono gruppi terroristi­ci che cercano di approfitta­re della minoranza musulmana

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