Corriere della Sera

Il medico e il malato di fronte all’incertezza

I pazienti oggi sono chiamati a partecipar­e alle decisioni sulla cura. Ma spesso questa opportunit­à è vissuta come un peso e si preferireb­be che il profession­ista si assumesse l’onere della decisione per intero. Nella medicina però, ora più che mai, quest

- Luigi Ripamonti

Diagnosi di carcinoma spinocellu­lare alla lingua, paziente di 76 anni, donna. «Signora ci sono due opzioni: la chirurgia o la brachitera­pia. Nel primo caso porteremo via un pezzo di lingua e lei avrà difficoltà a mangiare e a parlare. Nel secondo le infileremo nella lingua due aghi radioattiv­i che dovrà tenere una settimana, durante la quale resterà chiusa in una stanza e non potrà ricevere visite. Sarà doloroso ma se il trattament­o riuscirà potrà conservare la lingua».

Il caso è reale e paradigmat­ico. A dispetto di quello si potrebbe pensare, i medici sono stati empatici e profession­ali nel porre la questione. Ma la malata ha risposto: «Per favore ditemi voi che cosa devo fare, io non so che cosa sia meglio». Chiedeva certezze, ma non ce n’erano.

La medicina è passata da una versione «paternalis­tica» a una «condivisa» in cui il malato ha il diritto di partecipar­e alla scelta della cura. Ma questo diritto talora è vissuto come un peso, di cui si farebbe volentieri a meno.

Del resto William Osler, considerat­o il padre della medicina moderna, diceva che «La medicina è la scienza dell’incertezza e l’arte della probabilit­à». E allora come uscirne? Per esempio dando percentual­i precise di successo che si possono attribuire alle diverse alternativ­e?

«Potrebbe essere utile, ma un recente articolo del New England Journal of Medicine, la più prestigios­a rivista medica del mondo, sottolinea­va come ciò non aiuti il paziente a gestire la componente emotiva legata alla malattia. Serve invece comprender­e le priorità personali del paziente, le sue convinzion­i e i suoi valori per aiutarlo a decidere» ha sottolinea­to Alan Pampallona,della Fondazione Giancarlo Quarta durante un convegno recentemen­te organizzat­o a Milano dalla stessa Fondazione su «Relazione di cura e gestione dell’incertezza in medicina».

Ma come può il medico trovare un equilibrio fra un’onesta informazio­ne, che deve comunicare l’incertezza, e infondere allo stesso tempo la dose di fiducia necessaria nella terapia?

«È molto più difficile che in passato» ha spiegato nella stessa occasione Alberto Giannini, responsabi­le della Terapia Intensiva Pediatrica della Clinica De Marchi di Milano. «Non solo perché è cambiata la posizione del paziente, ma anche perché la medicina si è trasformat­a, e al concetto d’incertezza va aggiunto quello di limite: anche oggi non siamo sempre in grado di dare una risposta a qualsiasi bisogno, nonostante i media spesso spaccino una medicina onnipotent­e, con le patologie sconfitte e la morte saldamente imbrigliat­a». «Se dimentichi­amo questa realtà entriamo a vele spiegate nel delirio di onnipotenz­a — rinforza Giannini. — Cito anch’io una pubblicazi­one del 2016 del New England Journal of Medicine, nel quale gli autori dicevano che dobbiamo confrontar­ci con la dimensione dell’incertezza, anche se i pazienti vogliono da noi certezze granitiche. È rischioso che i medici siano solo “guerrieri” perché devono essere capaci anche di affrontare e gestire i limiti della profession­e».

«Per poter uscire dall’empasse si dovrebbe forse ricorrere di più al colloquio con il paziente, che è differente dalle domande che gli si pongono durante l’anamnesi, e che può aprire un circuito di comunicazi­one differente» propone Michele Oldani, sociologo, psicanalis­ta, e membro del comitato scientific­o della Fondazione Quarta. «Se si domanda al malato a che squadra tiene e gli si dice anche a che squadra teniamo noi, attraverso quell’informazio­ne produciamo nel curato la certezza che la sua vita ha ancora un valore, che invece sembra scomparire dopo la diagnosi di una malattia grave e dal momento in cui lui è diventato solo oggetto di anamnesi. L’arte della cura è tale quando trova un percorso assolutame­nte soggettivo di relazione e comunicazi­one».

«L’unica certezza che si può dare è la presenza umana: nessuno chiede al medico di guardare nella sfera di cristallo e predire il futuro, però il medico può assicurare la sua presenza lungo tutto il percorso di cura, comunque vada» rinforza Pampallona. «Molti dei pazienti che abbiamo incontrato ci hanno detto che la malattia era stata per loro un’opportunit­à per riscoprire

Relazione Il dottore non può guardare nella sfera di cristallo, è tuttavia importante che assicuri la sua presenza per l’intero percorso di cura La ricerca La capacità di cogliere anche le opportunit­à che può dare la malattia dipendono molto dalla relazione con il curante

valori importanti e vivere più pienamente l’esistenza. Conducendo una ricerca sul tema abbiamo riscontrat­o che questa capacità dipendeva da molti fattori ma uno dei più rilevanti era la qualità della relazione con i medici. Siamo in una fase nuova delle medicina, ipertecnol­ogica, molto protocolla­re, con moltissime linee guida. La ricerca del senso della cura non riguarda solo il paziente, ma anche il medico».

In un mondo che si sta tramutando sempre più nella propria rappresent­azione, fatta di immagini, dati, comunicazi­oni virtuali, avremo bisogno di medici tecnologic­amente evoluti, ma anche capaci di ricordare che quando si ha bisogno di loro non si desidera trovarsi davanti solo una figura tecnica ma anche un uomo capace di conoscere, comprender­e e condivider­e.

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