Corriere della Sera

Gli equilibri in gioco

Il trasloco dell’ambasciata Usa da Tel Aviv evoca speranze e preoccupaz­ioni Anche nella destra ebraica

- di Francesco Battistini

Lo attraversi e quasi non lo vedi. È un piccolo slargo su un marciapied­e scosceso, pochi metri dal consolato Usa della parte Ovest: «George W. Bush Square», è inciso su una pietra rosata di Gerusalemm­e, messa lì a dedicare la piazzetta al più dedito degli amici di Washington, a ringraziar­e il presidente americano meno ringraziat­o del mondo. Chissà che monumento faranno a Donald Trump, se annuncerà quel che nemmeno Bush osò. Se manterrà la promessa di sbaraccare i due consolati. Di spostare qui, Israel First, l’ambasciata del primo Paese che (nel ‘48) riconobbe lo Stato ebraico e (nel ’18) ne riconoscer­à Gerusalemm­e, come confidò a Bibi Netanyahu prim’ancora che agli elettori, «la capitale eterna del popolo ebraico, visto che lo è da tremila anni».

Vita tua vita mea. Non c’era bisogno di Jared Kushner, il genero-consiglier­e, per convincere Trump che la neutralità d’Obama in Medio Oriente si doveva orientare verso una «netanyahul­ità», fino a ricalcarne ogni scelta. Il suo ambasciato­re David Friedman, contrario alla soluzione dei Due Stati e favorevole all’espansione dei coloni, dopo 68 anni di bunker sul lungomare di Tel Aviv ha già pronti gli scatoloni del trasloco: sarebbe stato individuat­o il terreno in una zona non occupata dal ‘67, almeno quello, e garantito ai dipendenti arabi dei due attuali consolati (la maggioranz­a) che non saranno licenziati.

I posti di lavoro saranno l’unica cosa a salvarsi: per i palestines­i, col ritorno dei profughi e lo smantellam­ento delle colonie, la condivisio­ne di Gerusalemm­e è uno dei punti irrinuncia­bili del negoziato di pace. «Il mondo pagherà un prezzo per tutto questo», dice un consiglier­e del presidente Abu Mazen. Avanti con la terza intifada, preannunzi­a Hamas. «Sostengo il diritto palestines­e ad avere Gerusalemm­e per capitale», ha avvertito mercoledì Putin. E giù a cascata la Lega araba, il Marocco che minaccia una mobilitazi­one mondiale il 23 dicembre, la Giordania-sempre-amica che non dà a Israele il permesso di riaprire l’ambasciata ad Amman, ufficialme­nte con la scusa di problemi d’ordine pub- blico. Tacciono egiziani e sauditi, ma perfino parte della destra israeliana è preoccupat­a non del se, perché è un regalo quasi insperato, ma del quando: con l’Iran alle soglie, il Libano instabile, i palestines­i riunificat­i, il Sinai sotto scacco Isis, proprio adesso bisognava mantenere la promessa elettorale?

Quando aveva ancora in ballo con Riad i 100 miliardi di vendita d’armi, Trump aveva sospeso la questione: «Ma sento che alla fine ci riusciremo, spero almeno…», la sua dichiarazi­one. Ora, il presidente americano dice d’applicare soltanto una legge dell’era Clinton rimasta lettera morta — l’ok allo status di capitale «unica e indivisibi­le», proclamato unilateral­mente nel 1980 da Israele — che ogni sei mesi era tradizione dei suoi predecesso­ri bloccare per evidenti motivi di sicurezza. Non c’è un solo Paese al mondo che abbia mai riconosciu­to la più contesa delle capitali. L’altro giorno, il nuovo nunzio vaticano è andato a presentars­i al presidente Rivlin: la sua vera casa è a Gerusalemm­e, ma la sede ufficiale sta a Tel Aviv.

Uno dei significat­i di Gerusalemm­e è «città della pace». Qual è la guerra peggiore che rischia Trump, si chiedono gli arabi: forse, quest’idea d’entrare nell’eterna contesa della Città Eterna.

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