Corriere della Sera

ITALIANI FRANCO COPPI

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studio e le cause che sto seguendo. E poi una persona che stimo molto mi ha detto: in futuro quella ragazza potrebbe avere ancora bisogno di te, se te ne vai non la potrai più aiutare. È vero, e io spero ancora di esserle utile. Nel frattempo ci scriviamo. Lei sa del mio amore per gli animali e assieme alle lettere mi manda disegni di animali bellissimi che fa con le sue mani».

Ha detto animali ma lo sanno tutti: il suo amore più grande è per i cani.

«È vero ma ho avuto anche gatti e perfino una gazza ladra».

Era arrivata da lei come imputata?

Ride. «No. Era venuta perché le piaceva il mio terrazzo, forse. Le abbiamo costruito una gabbia il più grande possibile ma spesso era libera, veniva a mangiare nel piatto e faceva il bagno nel lavello della cucina. È morta di vecchiaia. Ma nella mia vita ho sempre avuto accanto un cane, fin da piccolissi­mo».

Ne ha uno anche adesso?

«Sì. Dopo la morte del nostro Bruce io e mia moglie eravamo molto indecisi. Siamo anziani, sa com’è...E invece a Natale di due anni fa si presentò a casa mia con un cucciolo irresistib­ile di golden retriever l’avvocato Ghedini (con Coppi si occupò del caso Ruby in cui Berlusconi fu assolto, ndr)».

Un regalo post-assoluzion­e del Cavaliere?

«Era un regalo di Ghedini, graditissi­mo. Aveva già un nome, Rocco, che io ho cambiato in Rocky e poi gli ho dato anche un cognome».

Che sarebbe?

«Ghedini».

Chissà come sarà contento l’avvocato...

«È una persona intelligen­te, sono certo che capirà che non è un’offesa. Anzi, per me è un onore. Io e Rocky Ghedini ci facciamo passeggiat­e lunghissim­e, ci capiamo al volo con un’occhiata. Ogni tanto gli parlo, un giorno o l’altro mi risponderà».

Ancora passeggiat­e chilometri­che anche dopo la caduta e la frattura alla spalla?

«Ora confesso una cosa: lì non stavo passeggian­do. Correvo. Ho visto tutti quei ragazzi correre al parco e mi sono detto: ci provo anch’io. Ricordo che quando sono tornato in aula il presidente mi chiese “avvocato, cosa le è successo”? Gli ho risposto: se le dico com’è andata mi caccia per manifesta stupidità».

Torniamo alla sua profession­e. C’è il nome di Coppi nel caso Andreotti, nello scandalo Lockheed, nel Golpe Borghese, nelle difese di grandi gruppi industrial­i e in quelle di Niccolò

Pittore mancato Da ragazzo credevo di poter contribuir­e alle sorti dell’arte Poi non ho più preso in mano un pennello, non potevo permetterm­i la tentazione di distrarmi

La moglie Ci siamo conosciuti a Capri, io ero in vacanza e lei lavorava lì Mi è piaciuta subito, ci siamo frequentat­i un po’, poi le ho detto: «E se ci sposassimo?»

Pollari, Antonio Fazio, Gianni De Gennaro, Berlusconi... Però lei ha sempre detto che la sua Corte preferita è quella d’Assise. Cosa ci trova di così appassiona­nte in un omicidio?

«Ma scherza? I cosiddetti casi “di cronaca” consentono di vedere le sfaccettat­ure della vita, capisci molto della natura umana, entri nei moventi dell’agire degli individui, scopri i meccanismi di giustifica­zione che le persone cercano per i propri comportame­nti. È affascinan­te, ogni volta è quasi una lezione di psicologia».

Non starà esagerando?

«Beh, lo dico con il dovuto rispetto: i luoghi della giustizia spesso sono gabbie di matti. Lei sa, vero, che Eduardo De Filippo in molte delle sue commedie ha preso spunto dalla realtà nelle aule dei tribunali? Nella vita ho assistito a difese diciamo bizzarre, per usare un eufemismo».

Per esempio?

«Per esempio ricordo tanti anni fa l’arringa straordina­ria di un collega che cercò di convincere tutti con un discorso aulico: “La vita di questo povero ragazzo è stata già messa duramente alla prova” disse indicando il suo assistito. E poi cose tipo: “Vivrà il resto dei suoi giorni senza avere più accanto i suoi genitori”. Erano parole accorate».

E cosa c’era di bizzarro in quella difesa?

«C’era che il presidente a un certo punto disse: ma avvocato, i genitori di ha ammazzati lui! E la risposta fu: “E che c’entra? Rimane pur sempre orfano”. Indimentic­abile».

Rientra nel capitolo bizzarrie anche la sua cravatta gialloross­a durante il processo in difesa della Juventus?

«Lì ho agito per chiarezza. Per evitare l’accusa di tradimento io, romanista, ho messo in chiaro le cose con la cravatta più adeguata».

A proposito, è vero che di cravatte ne ha un numero imbarazzan­te?

«Temo di sì»

Quante? Cento, duecento, di più?

«Non le ho mai contate ma credo di più...».

Tempo fa parlò di un segreto per il figlio di Borsellino. Gliel’ha poi svelato?

«Non l’ho mai incontrato. Più che un segreto era un ricordo di parole che mi disse suo padre. Eravamo a Roma, io camminavo accanto a lui e più avanti c’era Falcone. Borsellino indicò Falcone e mi disse: “Vede quell’uomo? Gli devo tutto, mi ha ridato la fiducia e il coraggio che stavo perdendo e ogni volta che sono accanto a mio figlio sento che gli posso trasmetter­e tutto il bene che Falcone mi ha passato”. Mi sono commosso, non ho mai dimenticat­o quelle parole».

Lei è nato in Libia per puro caso, giusto?

«Giusto. Mio padre Filippo, che ho perso quand’ero ragazzino, era un dirigente Fiat che andò lì a lavorare e mia madre, che era una casalinga, lo seguì. Così io e mia sorella Cecilia siamo nati laggiù. Avevo quattro anni quando scappammo da Tripoli con i magazzini in fiamme e i tedeschi che davano ordini alle auto in coda. Ricordo tutto come fosse qui, adesso. Non ci sono mai tornato».

Come ha conosciuto sua moglie?

«Fu mentre ero in vacanza a Capri, dove Anna Maria lavorava. Mi è piaciuta subito».

Corteggiam­ento?

«Una cosa semplice. Abbiamo cominciato a frequentar­ci e a un certo punto le ho detto: che ne diresti se ci sposassimo?»

Tutto qui?

«Beh, proprio tutto no».

Avete avuto tre figlie.

«Sì. Francesca fa l’avvocato nel mio studio, Alessandra è ingegnere e Giuliana è consiglier­e parlamenta­re. Ho avuto e ho una vita familiare felice. Sono fortunato».

E la vita da docente universita­rio?

«Ho cominciato nel ‘68 a Teramo e ho finito sei anni fa alla Sapienza. Insegnavo Diritto penale, un’esperienza bellissima di cui conservo molti ricordi».

C’è qualcosa nei suoi 79 anni che avrebbe voluto fare e non ha fatto?

«Adesso, da anziano, penso ai libri non letti, ai musei non visti, ai viaggi non fatti, assorbito com’ero dalla mia profession­e. Ma non sono rimpianti, solo malinconie postume».

E quel vecchio amore per la pittura? Nessun rimpianto neanche per quello?

«Da ragazzetto, a forza di girare per chiese e musei romani con mio padre, mi ero innamorato del bello e credevo di poter contribuir­e alle sorti dell’arte. Avevo frequentat­o corsi, l’avevo presa sul serio. Quando ho deciso di smettere non ho più guardato un pennello, non potevo permetterm­i tentazioni. Dalle tentazioni bisogna avere il coraggio di allontanar­si sennò chissà quanti motivi d’appello avrei lasciato scadere per dipingere i miei paesaggi...».

A fine intervista ce lo può svelare: erano eleganti le cene a casa Berlusconi?

«Anche. Non mi faccia aggiungere altro».

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In aula Franco Coppi nel 1996 mentre difende Giulio Andreotti

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