Corriere della Sera

La supercar silenziosa Un salto culturale col pieno di emozioni

- Roberto De Ponti

Lavoro e ritorno ogni giorno con un’auto Diesel che consuma come un aereo al decollo: un motivo più che convincent­e per salire su una vettura elettrica e scoprire se davvero il futuro è questo o se invece le vecchie abitudini non moriranno mai, carburante permettend­o. Poi scopri che l’elettrica non è una macchina qualsiasi, ma un mostro di prestazion­i: non male per chi pensava che il massimo delle ricaricabi­li fossero le golf car.

Tesla, Model X: il primo incontro con quella che assomiglia molto a una supercar è una via di mezzo tra l’incuriosit­o e il sospettoso. Perché è subito evidente che non si tratta di una macchina normale: per dimensioni, decisament­e imponenti, per peso, per la cura nei particolar­i. Per quelle inconfondi­bili portiere posteriori che si aprono ad ala di falco. Siedi al posto di guida e la prima cosa che ti colpisce è l’essenziali­tà dei comandi che quasi contrasta con l’enormità del monitor touch screen, 17 pollici su cui controllar­e ogni particolar­e della vettura. Poi metti in moto. Forza dell’abitudine, cerchi il pulsante per avviare la vettura, non c’è: ovvio, in realtà l’auto è sempre accesa. Per capirsi, è come stare seduti su un enorme smartphone, con una batteria che va da ruota a ruota, due motori (per questo si chiama D, Dual) sistemati sui due assi. E per muoversi basta dare un colpo all’accelerato­re.

Prima sensazione: silenzio. Silenzio assoluto. Solo il rumore degli pneumatici sull’asfalto. Seconda sensazione: potenza. È come guidare una monomarcia. Quando dai gas (o corrente, quale sarà il termine più logico?), la Model X risponde immediatam­ente, inchiodand­oti le spalle allo schienale. Può arrivare fino a 250 km all’ora, ma solo perché è autolimita­ta, altrimenti... È soprattutt­o la ripresa, però, a impression­are, perché quando schiacci va, va velocissim­a, e continua a crescere in presa diretta. Poi, quando è il momento di frenare, quasi ti dimentichi di usare il pedale, perché basta staccare il piede dall’accelerato­re per sentire, prepotente e sicuro, il freno motore che interviene, ricaricand­o la batteria.

Già, la ricarica. Bastasse frenare, per avere sempre carica l’auto, allora bisognereb­be dare alla Tesla il Nobel per aver brevettato il moto perpetuo. In realtà, per un automobili­sta abituato — come ovvio — a fermarsi al distributo­re non appena si accende la spia della riserva, si tratta di un salto culturale. Non c’è contagiri, ma un diagramma con i consumi; non c’è l’indicatore del serbatoio ma l’icona di una batteria in puro cellulare style che perde tacche man mano che si viaggia. E qui l’ansia cresce. Perché un distributo­re di benzina lo si trova a ogni angolo, uno di corrente elettrica un po’ meno. Bisogna fidarsi del navigatore. E armarsi di pazienza quando lo si trova, perché una ricarica dura molto di più di un rifornimen­to. Pazienza ampiamente compensata dal costo di un «pieno». E se poi il percorso è breve, allora basta la ricarica nel box di casa, auto attaccata alla corrente come un telefonino qualsiasi (ancora). Particolar­e da non sottovalut­are, ora che si ricomincia con il Diesel da aereo al decollo.

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