Carlo Rivetti: Kanye West? Credevo fosse un calciatore
Il presidente di Stone Island fra collaborazioni eccellenti e allergia alle «divise»
Eper ufficio, un divano. È qui che mister Stone Island, all’anagrafe Carlo Rivetti («ma tutti mi chiamano Carlo»), crea, riceve, discute, pianifica. Comodamente seduto. Mai in giacca e cravatta e camicia («detesto»). Sempre con il sorriso di chi lascia fare perché ha fiuto&fiducia: «Voglio che i ragazzi (così chiama i suoi, dai creativi ai manager ndr) realizzino le idee buone che hanno, quando vedo che stanno, per caso, contro un muro li fermo».
Classe 1956, laurea in Bocconi («ma ho cambiato undici collegi: ero terribile»), figlio d’arte (suo padre Silvio Rivetti con i fratelli rivoluzionò l’azienda di famiglia, il GFT, Gruppo finanziario tessile, cioè la storia industriale del- l’abbigliamento italiano), trent’anni fa si mise in proprio con la Sportswear Company Spa che fra i marchi forti aveva Cp Company e poi una «certa» Stone Island, sinonimo di capi ad alto contenuto tecnologico: «Allora non faceva troppo clamore — racconta ora — ma è sempre stata la mia ammiraglia». Già allora. Oggi questo nome figura all’ottavo posto degli «hot brands del mondo» dopo Balenciaga, Gucci, Off White, Vetements, Givenchy, Valentino e Saint Laurent.
Che impressione le fa essere un idolo degli adolescenti di tutto il mondo? E come ha fatto a intercettarli?
«Le nuove generazioni senza perdere le vecchie. Questo il bello. Io ho sempre creduto nello sportswear e nel fatto che nel formale sarebbe successo un disastro. Dieci anni fa
Ho sempre creduto che, nello stile formale, sarebbe successo un disastro
Non ho camicie. Le cravatte? Corto circuito fra mente e cuore
sentivo un’onda arrivare. Così ho riorganizzato l’azienda. Via lo stilista e preso un team. Poi avevo notato che la gente impazziva quando spiegavo i capi così l’idea del foglietto che li racconta. Ho continuato a credere nella ricerca e oggi ci cercano per questo. Infine la comunicazione diversa. Anche se resto nazional-popolare, mi piace andare fra la gente. A volte mi metto in coda con i ragazzi per le mie t-shirt. È successo così a Manchester ed è finita a selfie e autografi».
Un «icon» come Kanye West e il patron di Supreme: per loro c’è chi si mette in coda per ore e ore.
«Ero a una presentazione quando mi chiamano i ragazzi e mi dicono che c’è Kanye West al telefono. E io dico: “Un calciatore?”. Un disastro eh? Poi lui è venuto da me e abbiamo fatto cose bellissime. Così con James Jebbia, il proprietario di Supreme: mi voleva vedere e io non capivo. Per i miei creativi era come se avessero sentito il nome della Madonna. Dovevo andare a New York da mia figlia e passai a trovarlo. Due uomini con gli occhi azzurri in una stanza sono pericolosi. Parlammo e lui mi disse: “È fatta”. Io risposi: “No, prima proviamo”. E fu un altro successo. Poi la proposta di Nike. Insomma ho cominciato a capire che c’eravamo. E io che non avevo mai voluto allontanarmi dall’Europa, dopo 20 anni sono sbarcato negli Usa».
Come ha fatto a sentire il vento giusto?
«Insegno al Politecnico di Milano da 15 anni. Guardavo gli studenti e mi sono detto che non potevo morire vestendo solo i panzoni come me. Dovevo solo riuscire a comunicare con loro».
Dicono che lei assomigli molto a suo padre Silvio.
«Sono cresciuto nel suo mito. Avevo tre anni quando morì in un incidente, ma ancora oggi quando vado alle cene del gruppo Anziani del GFT a lui dedicato (500 iscritti) applaudono quando arrivo: per lui».
Mentre «Carlo» chi è?
«Faccio il più bel mestiere del mondo che è quello che sognavo di fare da bambino. Vado in ufficio con la bici elettrica. Mi piace leggere: da Guccini a Wilbur Smith. In rete gioco: a Top Eleven, con la mia squadra Courma Aosta. Che era anche il nome di quella di hockey che portammo in serie A ed è da allora che sono cittadino onorario di Courmayeur: quando mi consegnarono le chiavi volli persino la banda. Scio: ero nazionale B, ora vorrei insegnarlo alle nipotine. Ho una bellissima famiglia, con una moglie “Tarcisio Burnich”, marcatrice a uomo con i ragazzi: Silvio (32 anni), Matteo (31), Camilla (24) che lavorano in azienda. Quando andiamo a pranzo tutti insieme sembriamo siciliani!».
Mai in completo, veramente?
«Ho acquistato persino un abito nuziale indiano per ovviare all’obbligo dello smoking e mi sento un principe. Non posseggo camicie. Considero le cravatte il cortocircuito fra mente e cuore. I completi sono solo una divisa, la gente sogna l’abbigliamento per il tempo libero». Ecco, allora: Carlo, l’uomo dell’abito dei sogni!