L’addio a Johnny stile Victor Hugo
Un milione sugli Champs Elysées per l’addio all’Elvis transalpino (accadde solo con Victor Hugo): un giorno folle per un amore assurdo
Un milione sugli Champs Elysées per l’addio a Johnny Hallyday, un onore tributato solo a Victor Hugo nel 1885. Ai funerali anche il presidente Macron.
Accanto alla bara bianca, nella chiesa della Madeleine, il parroco conclude l’omelia ripetendo «Que je t’aime, qui je t’aime, que je t’aime», citazione del più grande ed erotico successo di «Johnny», mentre il prete seduto dietro di lui applaude in giubbotto di pelle nera, i quattro chitarristi della band suonano un blues e i fedeli — capo dello Stato compreso — battono le mani a tempo. Fuori, un milione di persone venute da tutta la Francia piangono e applaudono, gridano «Johnny» e cantano le sue canzoni, mentre la Tour Eiffel esibisce la scritta «Merci Johnny». Poco prima, 800 motociclisti in Harley Davidson hanno scortato il feretro dall’Arco di Trionfo alla Concorde e poi alla Madeleine, mentre la gente correva lungo le transenne. Un corteo funebre sugli Champs Elysées c’era già stato prima, il 1° giugno 1885. Per i funerali di Victor Hugo.
È stata una giornata folle, come lo è stata la vita di Johnny Hallyday e l’amore straordinario e inspiegabile che i francesi provano per lui. È stato il trionfo della Francia mainstream, che da sessant’anni non si interroga troppo sui propri gusti, produce sosia di Johnny Hallyday (a sua volta all’inizio sosia di Elvis Presley) e gli perdona tutto, anche le noie con il fisco e la scelta di farsi inumare lontano, nell’isola caraibica di Saint-Barthélemy dove oggi sarà trasportata la salma. Gli unici a non partecipare al grande momento di commozione nazionale sono Marine Le Pen, non gradita alla famiglia, e il leader della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon, che difende la laicità e protesta per Macron in chiesa: «Persino Clemenceau, vincitore della Grande guerra, rifiutò di entrare a Notre Dame per il Te Deum della vittoria». Ma qui si tratta di «Johnny».
«Sessant’anni di carriera, 1.000 canzoni, 50 album e voi siete ancora qui per lui — ha detto il presidente Emmanuel Macron cominciando il suo discorso —, perché Johnny c’è sempre stato, per voi. Per una storia d’amore, un lutto, la nascita di un figlio, un dolore. È diventato per voi come un amico, un fratello. Johnny ap- parteneva alla Francia».
Fino a Mentone, Johnny è un’icona nazionale quanto la baguette. Da Ventimiglia in poi, nessuno saprebbe citare il titolo di una sua canzone. Ma per i francesi Johnny è una specie di Gianni Morandi, Lucio Dalla e Vasco Rossi insieme, un uomo che ha cominciato a essere osannato alla fine degli anni Cinquanta e non ha mai smesso. «Johnny è sempre stato con i francesi — spiega Charles Vanjon, sessantenne venuto con la famiglia in Tgv da Lille —. Quando abbiamo lasciato l’Algeria, quando se ne è andato il generale De Gaulle, quando è arrivato Mitterrand, quando la Francia ha vinto la Coppa del mondo di calcio, quando i terroristi hanno fatto gli attentati e Johnny ha cantato per le vittime. Johnny è tutta la nostra vita».
I pezzi — l’ubiqua Que je t’aime,e Allumer le feu, Le Pé- nitencier, Oh Marie, Je te promets, Quelque chose de Tennessee, Vivre pour le meilleur — sono come un rosario da ripetere in coro. Un popolo conosciuto per tante qualità, e anche per il cliché del francese un po’ sostenuto e sofisticato, tributa il più eccessivo degli addii a qualcuno che, fuori dai confini nazionali, può apparire come un improbabile Elvis con la erre moscia. Una rockstar celebre e amata anche per le gaffe («Toulouse-Lautrec? Non mi intendo tanto di rugby ma il Toulouse mi pare forte») e per gli ingressi clamorosi in scena: in elicottero, fendendo la folla dello stadio, tra le fiamme di un mondo post-apocalittico e soprattutto chiuso nella famosa «mano gigante» che poi si apriva per rivelarlo alla folla urlante.
«Johnny» è amato per il vocione coraggioso e perché dava tutto se stesso, con sprezzo del pericolo e del ridicolo. Un uomo di smisurato amore per la vita, le donne, la musica, le droghe. Sugli Champs Elysées che ospitano i flagship store dei marchi globali, da Tiffany a Disney, i francesi hanno salutato con il cuore a pezzi il loro Asterix al contrario. Il dio del rock che «faceva l’americano», ma era nato a Paris.