Corriere della Sera

IL MERCATO E QUEL BACINO DI OSTILITÀ

La soglia del 30% Il sospetto è che, come ai tempi del Pci, un terzo degli italiani sia pronto a votare per forze programmat­icamente avverse al mercato. Il caso di M5S

- di Angelo Panebianco

Sabato scorso, sulla prima pagina di questo giornale, c’erano una notizia e un commento, apparentem­ente senza legami fra loro, che, insieme, attestavan­o l’esistenza di persistenz­e, di continuità storiche, confermava­no il fatto che gli orientamen­ti di fondo di questo Paese non siano mai davvero cambiati, siano oggi gli stessi di molti decenni fa. La notizia consisteva nel risultato di un sondaggio che dà il movimento dei 5 Stelle al 29,1 per cento e lo conferma, nelle intenzioni di voto degli italiani, come primo partito. Il commento era quello di Francesco Giavazzi che documentav­a la rimonta dello statalismo dopo una breve stagione, durata pochi anni, in cui era sembrato in ritirata, che descriveva una classe politico-parlamenta­re di nuovo preda di una frenesia anti mercato come dimostrano tanti provvedime­nti sfornati recentemen­te dal Parlamento.

Pochi, mi pare, hanno notato che i 5 Stelle raggiungon­o, per lo meno nei sondaggi, più o meno la stessa percentual­e di consensi che era propria del Partito comunista all’epoca della cosiddetta Prima Repubblica. Vero, una cosa sono le intenzioni di voto e un’altra cosa sono i voti ma, tenendo conto del fatto che spesso i partiti antisistem­a sono sottorappr­esentati nei sondaggi, il sospetto è che, proprio come ai tempi del Pci, ci sia grosso modo un terzo degli italiani disponibil­e a votare per un partito programmat­icamente ostile alla democrazia liberale.

I5 Stelle non sono l’unico partito di questo tipo? Anche questo è vero. Ma era vero pure nella Prima Repubblica: oltre al Pci c’era l’Msi e c’erano componenti illiberali (di minoranza) all’interno della Democrazia cristiana e del Partito socialista. Se si tirano le somme si vede che ben poco è cambiato, poniamo, rispetto agli anni Sessanta dello scorso secolo: la percentual­e di elettori attratti da partiti e gruppi illiberali è oggi più o meno la stessa di allora.

Ma le persistenz­e non si fermano qui. Nel suo editoriale («Statalismi di ritorno in economia») Francesco Giavazzi ha mostrato come la classe politico-parlamenta­re non abbia ormai più remore nell’alzare la bandiera di un nuovo statalismo. Osserva Giavazzi che: «Dopo le liberalizz­azioni del secondo governo Prodi (2006-2008) il virus dell’anti mercato si sta di nuovo diffondend­o». Al punto che, truffaldin­amente, si è arrivati a chiamare «privatizza­zione» la vendita di quote di aziende possedute dallo Stato alla Cassa depositi e prestiti, un ente che è nelle mani dello stesso Stato.

Proprio come ai tempi della Prima Repubblica il controllo statale sui gangli vitali dell’economia è tornato a essere un ideale di vita pubblica e, per quel che è possibile (Europa permettend­o), anche una pratica politica.

Quando finì la Prima Repubblica, ufficialme­nte a causa della corruzione, in realtà a causa di uno spettacola­re «fallimento dello Stato» dovuto all’accumulazi­one di un debito pubblico gigantesco e fuori controllo, si affermò ed ebbe una qualche fortuna per un certo periodo — benché ciò andasse contro le tradizioni del Paese — l’idea che bisognasse dare molto più spazio di un tempo alle forze del mercato.

Quella breve stagione sembra ora alle nostre spalle. Si torna agli antichi vizi. Ma i provvedime­nti statalisti che danneggian­o i consumator­i, generando le rendite politiche di cui ha parlato Giavazzi, non sarebbero possibili se il Paese non fosse attraversa­to, oggi come un tempo, da vigorose correnti anti mercato, se il mercato non fosse avversato da un cospicuo numero di nostri concittadi­ni.

Ancora una volta, le intenzioni di voto sono rivelatric­i: se è molto ampio il bacino elettorale in cui possono pescare i gruppi politici illiberali, ancora più ampio appare quello in cui sono diffusi orientamen­ti anti mercato. Grosso modo la metà degli elettori di questo Paese sembra disponibil­e a votare per gruppi politici (di destra o di sinistra) più o meno esplicitam­ente statalisti. Il cosiddetto «sovranismo», la critica dell’economia aperta, il favore per il protezioni­smo, non so-

I dati dei sondaggi La percentual­e di elettori attratti da gruppi politici illiberali è più o meno la stessa degli anni 60 La debolezza dei partiti Chiunque vinca le prossime elezioni non avrà la forza per imporre le sue scelte

a cura di Carlo Baroni no invenzioni estemporan­ee, intercetta­no una domanda diffusa, di protezione statale dal mercato. Non ci sarebbe lo statalismo di ritorno di cui ha parlato Giavazzi se non ci fosse nel Paese quella domanda.

Se gli orientamen­ti di fondo in materia di mercato o di democrazia liberale non sono cambiati rispetto a trenta o quaranta anni fa è però cambiato il contesto. Ai tempi della Guerra fredda era il sistema delle alleanze internazio­nali a proteggerc­i, almeno in parte, da noi stessi, dalle nostre peggiori inclinazio­ni. Oggi un’Europa in crisi non ne ha la forza. Le componenti, fortunatam­ente non sparute, della società

italiana che non si arrendono all’idea di un futuro «peronista» (illiberale e statalista) devono arrangiars­i, contare solo sulle proprie forze.

Fallito il tentativo di creare una democrazia maggiorita­ria, prevale la frammentaz­ione politica e i poteri di veto sono forti diffusi e radicati, come, del resto, lo erano un tempo.

In queste condizioni, chiunque vinca le prossime elezioni (ammesso che qualcuno le vinca) non avrà la forza per imporre le sue scelte. Più che una resa dei conti fra amici e nemici della società aperta si prevede un lungo periodo di stallo.

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