«L’insulto» riapre vecchie ferite
Grazie a un film come «L’insulto» del regista Ziad Doueiri, arrestato e poi rilasciato in Libano subito dopo aver ricevuto la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile con Kamel El Basha all’ultimo Festival di Venezia, riusciamo a capire quanti veleni si possano depositare nella vita quotidiana a oltre quarant’anni di distanza da una guerra civile atroce e spietata. Nella vita quotidiana e ordinaria, non nell’arena dei grandi scontri politici, nei risvolti invisibili dell’esistenza di tutti i giorni, negli scambi che formano il tessuto quasi banale delle vicende umane: ci vuole il cinema, la letteratura a spiegarlo, non è sufficiente la saggistica storica, utile ma che non arriva al cuore dell’emotività collettiva. Nell’«Insulto» basta un banale incidente, causato dalla riparazione di una semplice grondaia, tra un capocantiere palestinese e un meccanico che si abbevera alla radio della destra cristiana seguace di Gemayel per provocare una valanga senza limiti. Prima un battibecco, un insulto, uno schiaffo, poi una controversia minore che finisce in una piccola aula di tribunale, poi una causa che richiama l’attenzione dell’opinione pubblica in un processo che diventa un caso nazionale. E le fazioni che si raggruppano e tornano a odiarsi, disseppellendo un rancore mai estinto, e le piazze in tumulto, spaccate tra il sostegno alla parte cristiano-libanese e quello alla parte palestinese. Ma è durante il processo che nel film si finisce per scavare tra macerie emotive pressoché sconosciute nell’Occidente pacificato. C’è la memoria di una spaventosa strage, quella di Tel alZaatar, dove nell’agosto del 1976 dopo un lungo assedio le truppe falangiste cristianomaronite, spalleggiate e foraggiate dalla Siria alawita (specialista, ieri come ai nostri giorni, di massacri orrendi), vennero uccisi quasi tremila palestinesi alloggiati in un campo profughi. E la memoria, opposta ma intrisa di sangue, della rappresaglia palestinese che nella cittadina cristiana di Damour, dove vennero uccise quasi seicento persone. Una doppia carneficina, che noi in Occidente abbiamo dimenticato, che si è sedimentata nel ricordo a bassa intensità di una comunità ancora ferita da quegli orrori e che si riaccende improvvisa per un insulto, un battibecco, una grondaia da riparare. La tragedia di un passato che non vuole passare.