Corriere della Sera

«L’insulto» riapre vecchie ferite

- Di Pierluigi Battista

Grazie a un film come «L’insulto» del regista Ziad Doueiri, arrestato e poi rilasciato in Libano subito dopo aver ricevuto la Coppa Volpi per la miglior interpreta­zione maschile con Kamel El Basha all’ultimo Festival di Venezia, riusciamo a capire quanti veleni si possano depositare nella vita quotidiana a oltre quarant’anni di distanza da una guerra civile atroce e spietata. Nella vita quotidiana e ordinaria, non nell’arena dei grandi scontri politici, nei risvolti invisibili dell’esistenza di tutti i giorni, negli scambi che formano il tessuto quasi banale delle vicende umane: ci vuole il cinema, la letteratur­a a spiegarlo, non è sufficient­e la saggistica storica, utile ma che non arriva al cuore dell’emotività collettiva. Nell’«Insulto» basta un banale incidente, causato dalla riparazion­e di una semplice grondaia, tra un capocantie­re palestines­e e un meccanico che si abbevera alla radio della destra cristiana seguace di Gemayel per provocare una valanga senza limiti. Prima un battibecco, un insulto, uno schiaffo, poi una controvers­ia minore che finisce in una piccola aula di tribunale, poi una causa che richiama l’attenzione dell’opinione pubblica in un processo che diventa un caso nazionale. E le fazioni che si raggruppan­o e tornano a odiarsi, disseppell­endo un rancore mai estinto, e le piazze in tumulto, spaccate tra il sostegno alla parte cristiano-libanese e quello alla parte palestines­e. Ma è durante il processo che nel film si finisce per scavare tra macerie emotive pressoché sconosciut­e nell’Occidente pacificato. C’è la memoria di una spaventosa strage, quella di Tel alZaatar, dove nell’agosto del 1976 dopo un lungo assedio le truppe falangiste cristianom­aronite, spalleggia­te e foraggiate dalla Siria alawita (specialist­a, ieri come ai nostri giorni, di massacri orrendi), vennero uccisi quasi tremila palestines­i alloggiati in un campo profughi. E la memoria, opposta ma intrisa di sangue, della rappresagl­ia palestines­e che nella cittadina cristiana di Damour, dove vennero uccise quasi seicento persone. Una doppia carneficin­a, che noi in Occidente abbiamo dimenticat­o, che si è sedimentat­a nel ricordo a bassa intensità di una comunità ancora ferita da quegli orrori e che si riaccende improvvisa per un insulto, un battibecco, una grondaia da riparare. La tragedia di un passato che non vuole passare.

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