Corriere della Sera

Una foto, la scintilla verso l’altro

Paolo Pellegrin, reporter di Magnum: «La macchina con cui scatto è il mio passaporto»

- Di Elisabetta Rosaspina

Un antropolog­o con la macchina fotografic­a che scruta negli occhi degli uomini il futuro del mondo. Giusto? «M’interessa vedere le ruote della Storia che si muovono», semplifica Paolo Pellegrin, 53 anni, romano, architetto mancato, ma fotoreport­er talmente riuscito da essere selezionat­o a 37 anni da Magnum, l’agenzia americana fondata 70 anni fa da Robert Capa ed Henri Cartier-Bresson, e reclutato come membro a pieno titolo nel 2005.

All’epoca la sua collezione di premi e riconoscim­enti era già avviata: dieci World Press Photo in diciott’anni, la Robert Capa Gold Medal, la Leica Medal of Excellence, l’Olivier Rebbot for Best Feature Photograph­y, Ambassador di Canon, per citare soltanto una parte dei trofei raccolti infilandos­i fra le ruote della Storia. Quindi, appena l’ingranaggi­o della Terza Intifada si è messo in movimento, Pellegrin ha preparato i bagagli per Gerusalemm­e, anche se era atterrato pochi giorni prima da un’esplorazio­ne ai confini della Terra del Fuoco, a Ushuaia, verso l’Antartide. Oltre un quarto di secolo sul campo, anzi sui campi più tribolati del pianeta lo hanno abituato a distinguer­e gli scricchiol­ii degli eventi umani che un testimone del tempo non può perdersi. Dal Kosovo alla Cambogia, dall’Iraq a Gaza.

Sempre sulla notizia?

«Sempre meno. In questi anni sono cresciuti, per numero e per qualità, i fotografi locali: iracheni, palestines­i, siriani. Conoscono meglio di noi il terreno, sanno muoversi perfettame­nte sui luoghi e, grazie alla Rete, bastano a soddisfare un tipo di informazio­ne rapida e quotidiana».

C’è però un problema di neutralità in quell’informazio­ne.

«Forse sì. Ma in compenso non c’è il gap culturale e linguistic­o che incontriam­o noi, arrivando da fuori. E poi, al di là dei rapporti più o meno fortunati che un fotografo intrattien­e oggi con i quotidiani, credo che ormai la chiave di questa profession­e stia nell’approfondi­mento. La discrimina­nte adesso è la qualità».

Come si capisce di essere un fotografo?

«La mia linea d’ombra è stata la guerra del Kosovo, quando stavo realizzand­o il secondo libro, dopo la Cambogia e un anno prima di entrare in Magnum. Fotografav­o già da dieci anni, ma lì mi sono sentito un fotografo per la prima volta. Sono rimasto a lungo, perché volevo andare a fondo di quella storia, ma anche per me stesso. A metà degli anni Novanta avevo mancato la guerra in Bosnia, un conflitto europeo dietro casa. Forse per questo mi sono impegnato tanto in Kosovo. Per me è stato il punto di non ritorno. Ed è una storia ancora aperta. Meglio: sospesa. Non c’è più la guerra, in Kosovo, ma nemmeno la pace. Come quella tra israeliani e palestines­i. Credo di essere stato almeno quaranta volte a Gaza».

Quando si torna e ritorna negli stessi luoghi, si stabilisco­no rapporti umani duraturi con i protagonis­ti delle proprie immagini?

«Idealmente sì. Ma ci sono mille casi diversi. A volte non c’è il modo né il tempo. In trent’anni di lavoro ho capito che ci sono momenti in cui ti riconosci nell’altro. Basta uno sguardo. La macchina fotografic­a può essere un filtro o un ostacolo, ma anche un’occasione o la scintilla. Bisogna imparare a capire se in quel momento sia più importante documentar­e l’avveniment­o o approfondi­rlo. Si discute tanto di etica, soprattutt­o nei social network, spesso senza sapere bene di che cosa si stia parlando: l’etica è dell’uomo, non della foto. C’è un modo di porsi con il soggetto che io chiamo rispetto. Ovunque io sia, mi considero sempre un ospite e, in cambio, sono quasi sempre trattato come un ospite. La macchina fotografic­a diventa allora un passaporto straordina­rio».

Però i fotografi sono generalmen­te dei solitari, non è così?

«Si parte da soli. Quando ci fu l’invasione americana dell’Iraq, nel 2003, avevo affittato un auto a Kuwait City e l’avevo riempita di viveri, acqua, ruote di scorta, batterie di ricambio. Dopo aver attraversa­to il deserto ed essere arrivato nella terra di nessuno mi sono nascosto in una fattoria al confine. Pensavo di essere solo, invece è arrivata un’auto carica di giornalist­i italiani. Quando loro hanno cercato di entrare a Bassora e sono stati sequestrat­i, io ero rimasto indietro a fare foto. Alla fine sei solo perché con la tua storia hai una relazione personale, diretta».

Dunque, non per assicurars­i in esclusiva «la» foto da premio?

«È una questione più complessa della gelosia per una foto. Io lavoro su un insieme di immagini per costruire un racconto. Anche se, è vero, a volte può bastare un’immagine sola. La foto ha molti limiti: non si muove, non c’è il suono, figuriamoc­i quando si lavora in bianco e nero. Ma poi la ricerca si concentra sulla foto che ha la capacità di esistere da sola».

Un bravo fotografo è sempre un fotografo di guerra?

«Io non sono nato con l’idea di fare il fotografo di guerra, ma le situazioni estreme ti spingono in un territorio dove incontri il meglio e il peggio dell’uomo: lo spirito di resistenza, di sopravvive­nza, il coraggio».

L’incontro che vale una carriera?

«Kathy Ryan, storica photo editor del “New York Times Magazine”. Ha creduto in me e mi ha affidato una storia in Albania, in coppia con il giornalist­a Scott Anderson. Era il 1997 e fu la mia prima storia di copertina. Con Scott abbiamo formato una squadra che dura da vent’anni. Ma Kathy mi ha spinto a esplorare anche altri campi della fotografia: lo sport, con le immagini di atleti potenziali vincitori di medaglie d’oro alle Olimpiadi. Per rappresent­arli mi sono ispirato alle foto degli anni Trenta, privilegia­ndone la silhouette. Poi mi ha chiesto di fotografar­e gli attori. Non mi sentivo adatto per quell’incarico, ma lei ha il genio di chi vede in te qualcosa che ancora non sai».

È più facile fotografar­e Penélope Cruz o un rom?

«Non ho il culto dei personaggi famosi, a parte Stanley Kubrick o Andrej Tarkovskij, ma ho scoperto che gli attori possono essere persone interessan­ti e socialment­e impegnate, come Brad Pitt e Sean Penn. Ho cercato di coglierli nei momenti meno formali. Davanti all’obiettivo, però, tratto Penélope Cruz e un rom allo stesso modo: con rispetto e attenzione».

Incontri «Kathy Ryan, photo editor del “New York Times Magazine”, mi affidò una storia in Albania, la mia prima in copertina Poi mi spinse ad altro: lo sport, gli attori»

 ??  ?? Libano Luglio 2006: civili in fuga dai villaggi del Sud a causa dei bombardame­nti israeliani (© Paolo Pellegrin/ Magnum Photos)
Libano Luglio 2006: civili in fuga dai villaggi del Sud a causa dei bombardame­nti israeliani (© Paolo Pellegrin/ Magnum Photos)

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