Le vie della piccola e media impresa Manifesto per andare oltre la crisi
Sono croce e delizia del nostro sistema produttivo. A seconda delle campane, nani incapaci di giocare con i giganti planetari, o agilissime creature con il dono di adattarsi ai repentini cambi dei mercati globalizzati. Sono quel pulviscolo di oltre quattro milioni di piccole e medie imprese (Pmi) — fenomeno che con questa portata è intrinsecamente italiano quanto la pizza — che hanno attraversato in qualche modo il deserto della crisi, sopravvivendo a tutto, e comunque ancora in grado di fatturare duemila miliardi di euro, di dare lavoro a 16 milioni di persone e di incidere sul 73,8 per cento del nostro Pil. Periodicamente sedotte dai partiti a ridosso delle scadenze elettorali, e quasi altrettanto sistematicamente confinate alla periferia delle politiche industriali dai vari governi.
Fuori dalle prevedibili risse dei talk show e dai triti luoghi comuni di tanti convegni, in Piccole per modo di dire, pubblicato da Fausto Lupetti editore, due personaggi all’apparenza distanti — intervistati da Giancarlo Loquenzi, voce del programma Zapping di Rai Radio1 — provano a percorrere nuove strade: s’avventurano in un viaggio che è uno spaccato sociologico del nostro Paese e al tempo stesso un manifesto improvvisato della dorsale produttiva italiana. Il primo è Matteo Richetti, «il bello di Montecitorio», tanto diversamente renziano da poterlo definire più che altro un «richettiano», oggi portavoce nazionale e responsabile comunicazione del Pd. Un politico che non risparmia critiche a quel mondo imprenditoriale che oggi denuncia i disastri della competizione planetaria ma «mentre il sistema globalizzato si andava formando» non ha avuto il coraggio (per opportunismo?) di «alzare la voce». Cresciuto nella «piastrella valley» modenese, nel suo programma ideale immagina riduzione delle tasse sul lavoro, investimenti pubblici, «un piano-Paese per l’energia e un progetto per far ripartire l’edilizia». Qualcosa però — rivendica — è già stato fatto, solo che l’impresa è come se «vivesse in una continua sindrome di complesso del brutto anatroccolo, incapace anche di cogliere ciò che viene proposto a proprio favore».
La seconda voce è quella di Paolo Agnelli, «il signore delle pentole» cresciuto in una delle più antiche famiglie imprenditoriali, nonché presidente di Confimi Industria, la Confindustria delle imprese manifatturiere private. Uomo che a tratti sfoggia quell’irruenza da terzino destro «spaccagambe» sfogata per anni sui campetti amatoriali. Come quando le suona a Confindustria, sindacati e banche, e quando svela l’altra faccia del nuovo mantra che va sotto il nome di industria 4.0: «Andiamoci piano. Occorre inno- vare, ma se lo facessimo tutti creeremmo una disoccupazione immensa».
Passando in rassegna i tanti mali del sistema Italia, Agnelli parte da una tesi semplice: «Il nanismo è una malattia prodotta dallo Stato», perché «non è tanto una vocazione, quanto fondamentalmente un prodotto delle normative italiane, per le quali sopra i 15 dipendenti un’impresa viene considerata al pari della Fiat». E se è quasi scontata la bocciatura dei «mille incentivi dati a pioggia e con criteri irrazionali», considerati come un «doping», stupisce che nella ricetta dell’imprenditore ci sia anche la richiesta di «più Stato», ad esempio in campo bancario. Il modello a cui guarda è quello tedesco delle garanzie pubbliche sul credito alle imprese, visto come unico rimedio per superare la «miopia» di certi istituti che «rifiutano sistematicamente di fare credito in nome del famigerato rating».
Il confronto scorre veloce come certe discussioni attorno a una buona tavola, tra stoccate reciproche, punti di contatto e la volontà di trovare una via d’uscita comune. Il tutto farcito di aneddoti, in qualche caso tanto veri quanto surreali. «Vado in un’azienda e vedo tutti indiani, col turbante, e tutti con la scopa in mano a pulire qua e là, mentre le macchine vanno da sole», racconta Agnelli per testimoniare le storture di un’Italia in cui «qualcosa non va», forse perché alla fin fine «probabilmente siamo tutti un po’ più delinquenti dentro». «A un certo punto l’imprenditore batte le mani e quelli mollano scope e palette e riprendono a lavorare alle macchine. Gli dico: “Cos’è questa storia”, e lui: “Quando vedono un estraneo devono prendere la scopa, perché sono della cooperativa”. Così alla cooperativa dà due lire, e lui li fa lavorare in fabbrica. Così non si va avanti».
L’industriale ll modello da seguire è quello tedesco delle garanzie pubbliche sul credito alle imprese
Il politico Un piano-Paese per l’energia, un progetto per l’edilizia, riduzione delle tasse sul lavoro