EMILIO CECCHI E I SEGRETI DI UNA CITTÀ
Fra giornalismo e letteratura. Firenze (pp. 292, € 20) di Emilio Cecchi, con prefazione di Pietro Citati, dà l’avvio ad una nuova collana dell’editore Aragno, diretta da Luigi Mascheroni, dedicata ad alcuni testi di autori famosi del ‘900 italiano, che, per varie ragioni, sono stati dimenticati. A Cecchi (1884-1966) seguiranno Ugo Ojetti (I taccuini), Giuseppe Prezzolini, Orio Vergani, Manlio Cancogni e Paolo Monelli: giornalisti che sono diventati «raffinati» scrittori e «letterati che non hanno esitato a uscire dalla torre d’avorio per sporcarsi le mani con la quotidianità». Una volta, infatti, era opinione comune che uno scrittore non dovesse collaborare ai giornali perché ciò avrebbe potuto influire negativamente sullo stile.
Cecchi — si sa, ma è bene ricordarlo — è un po’ il padre del giornalismo culturale di casa nostra. Basta pensare ai suoi interventi su «La Voce» di Prezzolini, «La ronda» (di cui fu uno dei fondatori), «La Stampa» e il «Corriere della Sera» (celebre, in proposito, il suo elzeviro, a commento dell’assegnazione, nel 1959, del Premio Nobel a Quasimodo, che cominciava con «A caval donato non si guarda in bocca») e su altri periodici.
Uscito per la prima volta nel 1966, subito dopo la morte del critico, Firenze accoglie ventidue saggi. Giotto, fra’ Angelico, Donatello, Pollaiuolo, Lorenzo il Magnifico, Leonardo, Guicciardini ed altri, ma anche la Firenze minore «grigiastra e sonnacchiosa» della seconda metà del ‘500 e degli inizi del ‘600.
Ci s’imbatte, per esempio, in Bernardino Poccetti e Giovanni Mannozzi, due pittori che, nelle lunette dei chiostri, dove si riuniva «gente alla buona», raccontavano delle storie («romanzi sacri a puntate, ricchi di episodi, recitati da personaggi noti e familiari»). Poccetti, poi, alla Nunziata di Firenze, dipinge anche le Storie dei Servi di Maria. Che Emilio Cecchi ragazzo contemplava «a bocca aperta».
Altri incontri, sempre cercando nella Firenze di allora? Certamente. E non è difficile fare delle scoperte interessanti. Come quella di Francesco Furini, nato nel 1603, in una famiglia povera. Il padre Filippo, pittore, gli spiega come usare colori e pennelli. Ma sarà nella bottega di Matteo Rosselli (di 25 anni maggiore di lui), allievo di Andrea del Sarto, che apprenderà a dipingere sul serio. Un viaggio a Roma gli fa conoscere la pittura del Caravaggio. Rientrato a Firenze, entra all’Accademia dei pittori ed esegue due affreschi a Palazzo Pitti dedicati a Lorenzo il Magnifico.
Poi, diventa prete. Comunque, per i soggetti, preferisce trovare ispirazione nella mitologia e nella Bibbia, soffermandosi soprattutto sui particolari che gli permettano di dipingere nudi femminili. Precisa Cecchi: «Non già nudi accademicamente frigidi ed evasivi, ma sentiti ed espressi con mollezza e languore quasi correggieschi». Dettagli, questi, che il pittore fiorentino riusciva ad ottenere usando un particolare impasto di colore. «Racconta il Baldinucci che, da artista vero, il Furini spendeva forte nell’oltremarino, che gli serviva a lumeggiare le carni. E pur di avere bei “naturali” (belle fanciulle per modello di nudo)», le pagava persino con dodici o quattordici piastre al giorno.
«A pensare al buon parroco, col nicchio in testa e il pennello in mano, assorto in quei modelli, la gente doveva restare perplessa —, annota l’autore di Pesci rossi —. Ma egli diceva, che “se conoscessero la gran fatica, anzi la mortale agonia, che prova l’artefice nel dar verità alla sua fattura, conoscerebbero altresì quanto impossibile cosa sia che, a chi tanto pena e fatica, possano essere importuni altri pensieri”».