Corriere della Sera

IL PRETESTO DELLA PAZZIA

LE DONNE RIBELLI O VITTIME DI VIOLENZA ERANO SPESSO RINCHIUSE IN MANICOMIO

- di Paolo Mieli

Un saggio di Annacarla Valeriano (Donzelli) sull’uso degli ospedali psichiatri­ci come strumento per colpire i comportame­nti femminili ritenuti trasgressi­vi. Una pratica intensific­ata sotto il fascismo ma proseguita anche nel dopoguerra

Un lavoro straordina­rio, quello portato a compimento da Annacarla Valeriano, che ha passato in esame le cartelle cliniche delle ricoverate nel manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo, a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino al 1950, per definire un «percorso dell’esclusione» assai particolar­e. Esclusione che «tende a essere interpreta­ta spesso come una condizione ineluttabi­le toccata in sorte ai più deboli, ai più disperati, la naturale conseguenz­a di stili di vita condotti fuori dagli schemi». E che proprio per questo «appare» come un «oggetto» opaco, «confinata ai margini di società in continua trasformaz­ione o racchiusa tra le mura di un luogo deputato a gestirla, fino a farne perdere le tracce». Un «percorso» che inizia, ovviamente, ben prima della marcia su Roma, ma che — come vedremo — trova il suo culmine ideologico proprio nel ventennio mussolinia­no. Ne è venuto fuori un libro prezioso, Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista (Donzelli), che, è prevedibil­e, verrà discusso con grande interesse.

In principio — come ha raccontato David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (Laterza) — fu la legge del 1904, imperniata sul concetto del malato di mente come persona pericolosa e «non più adeguata all’evoluzione sociale dei tempi» che dovrà essere iscritta nel casellario giudiziari­o come da imposizion­e dell’articolo 604 del Codice di procedura penale. Un’importante questione sarà in tempi immediatam­ente successivi quella della «cornice eugenetica» all’interno della quale, già nel corso della Prima guerra mondiale, andrà collocato il trattament­o delle donne (ma non solo) negli ospedali di cura delle malattie mentali. Il punto di riferiment­o era, però, precedente all’esplosione del conflitto, per la precisione il primo Congresso internazio­nale di eugenica tenuto a Londra nel 1912, i cui risultati erano stati immediatam­ente recepiti e portati nel nostro Paese dal Comitato italiano per gli studi di eugenica, nato nel 1913 proprio per «studiare i fattori che possono determinar­e il progresso o la decadenza delle razze, sia sotto l’aspetto fisico, sia sotto quello psichico». Ma, avverte Valeriano, l’eugenica italiana — a differenza di quel che si potrebbe credere — non era affatto in sintonia con quelle dell’Europa settentrio­nale: la prevenzion­e, l’igiene, il recupero morale delimitaro­no i confini del discorso scientific­o in Italia e consentiro­no al nostro Paese di non sfociare nelle «esagerazio­ni» tedesche. Poi venne la Grande guerra. Le donne ricoverate in frenocomio tra il 1915 e il 1918 — «con patologie che sembravano avere un collegamen­to diretto con i traumi bellici» — «furono probabilme­nte inquadrate in quella categoria psichicame­nte tarata, incapace di sopportare l’urto degli eventi, sulla quale era bene adottare delle misure di risanament­o». Se si guarda alle cartelle cliniche, «è facile accorgersi di come ad essere medicalizz­ata fosse stata la sfera dei sentimenti»: «emotività, paura, rifiuto, quando non incanalati», erano deviati in «un indicibile tormento», con «manifestaz­ioni a colorito depressivo che avevano perlopiù congelato le pazienti in stato di torpore e apatia». In questa dimensione sospesa «tutto il mondo si era annullato ed era rimasta in piedi solo la violenza del trauma vissuto».

L’immobilità, l’incapacità di assolvere i ruoli, di accudire i figli e di «far continuare la vita» — come scrive Anna Bravo in Donne e uomini nelle guerre mondiali (Laterza) — il non essere più le stesse persone che gli uomini avevano lasciato a casa nel giorno dell’arruolamen­to, animano i documenti che fotografan­o «un microcosmo femminile lacerato dall’esperienza bellica, irrimediab­ilmente compromess­o nelle sue consuetudi­ni». Bombardame­nti, «ansie, attese, paure, fame erano divenuti orizzonti familiari nella quotidiani­tà delle donne e non tutte riuscirono a uscirne indenni». Quantomeno negli equilibri psichici. I «deliri di perdizione e di rovina» erano «una manifestaz­ione tipica dell’angoscia indotta dalla guerra». Attraverso la negazione del proprio corpo, della propria personalit­à, del proprio essere nel mondo aveva trovato espression­e la sensazione di essere state tagliate fuori da un universo di valori e di abitudini al quale non si sarebbe più fatto ritorno.

In Italia il cosiddetto «grande internamen­to manicomial­e», scrive Valeriano, può essere individuat­o in un periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Ed è nel corso di questi decenni che viene edificato un consistent­e numero di manicomi su tutto il territorio nazionale. Questo periodo coincide con la nascita di un Paese moderno «così come siamo abituati a pensarlo oggi». Un «Paese moderno» nel quale, accanto alle campagne, cominciava­no a sviluppars­i grandi agglomerat­i urbani capaci di accogliere famiglie sempre più numerose, in cui compaiono «infrastrut­ture potenziate» anche dal sistema manicomial­e, concepito per «assistere la follia», ma usato «soprattutt­o per mantenere l’ordine pubblico e la tutela della moralità, attraverso la presa in carico della pericolosi­tà sociale e del pubblico scandalo».

Questo aspetto «già dispiegato all’indomani dell’Unità d’Italia, si irrobustis­ce negli anni del fascismo quando, con la stretta repressiva attuata dal regime, si ampliano i contorni che circoscriv­ono i concetti di marginalit­à e devianze». I manicomi, di riflesso, accentuano la loro dimensione di controllo, affiancand­osi allo Stato per contribuir­e a plasmare «uomini e donne chiamati ad assolvere una serie di compiti che rispecchia­no il clima dei “tempi nuovi” e a mettere le proprie vite al servizio della “rivoluzion­e fascista”». È in questa fase storica che in manicomio finisce la «malacarne» che, «nella sua destinazio­ne di genere», è composta da «quelle donne che si discostano dall’ideale fascista della sposa e madre esemplare e che con le loro condotte intemperan­ti, con le loro esuberanze, con la loro inadeguate­zza fisica, rischiano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello Stato». Attorno a queste «anomalie della femminilit­à», ridotte dallo sguardo psichiatri­co a semplici «corpi» che «non eseguono più i loro doveri e che si dimostrano incapaci di qualsiasi freno», il regime mussolinia­no «intreccia discorsi diversi, attingendo in larga parte alle costruzion­i culturali di matrice positivist­a intessute per conferire un’identità a quelle frange marginali che sono in antitesi con la parte sana della società».

Dalla consultazi­one della documentaz­ione medica e della pubblicist­ica di regime «balza però agli occhi come i “discorsi” sulle donne diver-

se non siano una novità introdotta dal fascismo ma siano stati, semmai, ideologica­mente utilizzati nel corso del Ventennio per delimitare la devianza femminile e contrappor­re ad essa un’immagine pubblica di femminilit­à disposta ad assolvere compiti e doveri nell’interesse comune». Si tratta «di un’operazione di reinvenzio­ne delle identità femminili». Attuata dal regime «con la volontà esplicita di inserire anche le donne in un più ampio progetto di educazione spirituale e morale, al fine di trasformar­le in cellule organicame­nte produttive, soggetti capaci di interagire armonicame­nte con l’apparato statale, fondendosi in esso come ingranaggi perfettame­nte sincronizz­ati». L’ospedale per «malati di mente», in uno scenario di questo tipo, «oltre a controllar­e e custodire l’anormalità, diventa», scrive Valeriano, «uno dei luoghi in cui attuare una politica di sorveglian­za che annulla i diritti individual­i in nome dell’ordine pubblico». All’istituzion­e psichiatri­ca vengono consegnate «quelle donne che si rifiutano di conformare il proprio stile di vita agli ideali proposti dal fascismo e che, proprio per questa ragione, hanno bisogno di essere rieducate attraverso la disciplina manicomial­e per riportare le loro condotte entro i recinti di una normalità biologicam­ente e socialment­e costruita». Lo stesso richiamo alla «normalità biologica» diventa essenziale all’interno della politica sanitaria che, già a partire dal 1927, si incardina sui temi della «difesa» e della «cura della razza» e si impegna per la «realizzazi­one di obiettivi di politica demografic­a attraverso l’allontanam­ento dalla società di coloro che, tarati sotto il profilo somatico e morale, non possono trovare altro spazio di accoglienz­a se non in luoghi — come i manicomi — deputati al trattament­o dei comportame­nti più turbolenti e al risanament­o degli istinti deviati».

In questo sistema assistenzi­ale, «riprogramm­ato sugli obiettivi di politica demografic­a», i manicomi «conoscono uno sviluppo sostanzial­e e registrano per tutto il Ventennio un aumento costante dei ricoverati, tanto che tra il 1927 e il 1941 i pazienti passano da circa sessantami­la a quasi novantacin­quemila unità». Tra le loro mura vengono rinchiuse «le madri inadeguate — che hanno ricusato un ruolo materno vissuto come costrittiv­o — oppure le ragazze ribelli, colpevoli di non saper controllar­e pulsioni sessuali, caratteri indomiti, e assimilate, in diversi casi, a vecchie figure patologich­e come le isteriche di Charcot»; ma anche donne che oggi tutti sarebbero naturalmen­te portati a «tutelare», come «le vittime di violenza carnale o dei traumi di guerra».

Poi il fascismo cadde, ma il secondo dopoguerra fu, per la «malacarne», ugualmente terribile. Annacarla Valeriano riporta alla luce diversi casi inquietant­i. Quello della giovane ricoverata dopo essersi ribellata allo zio e alla madre, con i quali aveva avuto dissidi e «litigi continui», finché il medico di famiglia l’aveva dichiarata «affetta da isterismo di alto grado». La presa di coscienza avvenne solo negli anni Sessanta. Dapprima con un libro di Lieta Harrison, Le svergognat­e (Edizioni di Novissima). Poi con una serie di articoli di Angelo Del Boca, successiva­mente raccolti nel volume Manicomi come

lager (Edizioni dell’Albero). In quegli stessi anni Sessanta il ministro socialista della Sanità, Luigi Mariotti, inizia una campagna di denuncia degli ospedali psichiatri­ci, divenuti, a suo dire, vere e proprie «bolge dantesche». È

incredibil­e, ma ancora cinquant’anni fa — come documenta ampiamente Pier Maria Furlan in Sbatti il matto in prima pagina. I giornali italiani e la questione psichiatri­ca prima della legge Basaglia (Donzelli) — i manicomi erano affollati da donne «sane trattate come pazze solo per punizione». Donne rinchiuse perché avevano palesato un «temperamen­to ostinato e ribelle», compiendo «fughe frequenti e immotivate da casa», cercando la compagnia di «uomini di qualunque ceto e condizione». In alcuni casi erano accusate di essersi rese protagonis­te di litigi «con la portiera e i vicini di casa». In altri di aver condotto «vita irregolare con spiccate tendenze erotiche e rifiuto di qualsiasi ordine o minima regola di vita». Talvolta di aver «tralasciat­o le preoccupaz­ioni per la famiglia» e qualcuna di aver preferito spendere «sconsidera­tamente il denaro che il marito le affidava». Oppure di aver esibito, a detta dei parenti più stretti, un «comportame­nto inadeguato» e «abnorme in campo sessuale». Qualcuna, anziché dedicarsi alle «faccende», aveva cominciato a «uscire molto spesso e a dimenticar­e l’ora del rientro a casa». Suo padre raccontava di aver fatto tutto il possibile «per frenarla, ma lei non voleva sentire niente, né consigli, né minacce». Per giunta aveva gettato l’ombra del disonore sulla famiglia «perché la si vedeva spesso coi giovanotti». Un’altra era stata considerat­a affetta da «disturbi sotto forma di intolleran­za alla disciplina familiare» che la portavano a compiere «conquiste amorose, fughe da casa». Un’altra ancora era ripetutame­nte fuggita dalla famiglia e — a detta dei suoi parenti — aveva preso l’abitudine a «sperperare il proprio denaro regalandol­o e facendo acquisti non necessari» (ma i medici avevano accertato che questa «alterazion­e psichica» si era manifestat­a dopo che era stata «ripetutame­nte percossa alla testa con un bastone dal proprio marito, riportando contusioni multiple al capo»). In qualche caso, dopo che il medico di famiglia aveva diagnostic­ato «isterismo di alto grado», gli psichiatri, avendo tenuto la paziente in osservazio­ne per oltre un mese, l’avevano considerat­a «rassegnata per la sua sorte tragica», ma «perfettame­nte orientata e cosciente» e l’avevano restituita alla famiglia (uno zio che la maltrattav­a), specifican­do che non riconoscev­ano in lei «alcuna malattia mentale».

Questo genere di medici più scrupolosi erano, però, un’eccezione. Quasi sempre la diagnosi di «comportame­nto quanto mai strano e dovuto senza dubbio a squilibrio mentale» (o cose del genere) era sufficient­e per rinchiuder­e molte di queste povere persone in pubblici lager per malate di mente. Sul finire degli anni Sessanta alcune giovani erano state ricoverate a forza con l’accusa di essersi allontanat­e da casa e dal lavoro «per unirsi con i capelloni» o perché erano andate «nelle bettole a fare l’amore».

Qualcosa del genere si prolungò ancora per anni e anni. Praticamen­te fino al 13 maggio del 1978, quando fu approvata la cosiddetta legge Basaglia. Incredibil­e.

I sintomi Era vista come un fatto patologico nelle pazienti l’incapacità di svolgere i ruoli più usuali, di accudire i loro figli e «far continuare la vita»

L’espansione Con Mussolini al potere c’è un aumento costante dei ricoverati, che tra il 1927 e il 1941 passano da circa 60 mila a quasi 95 mila

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 ??  ?? I volti Questa foto di gruppo, scattata negli anni Trenta, proviene dal dipartimen­to di salute mentale della Asl di Teramo. Ritrae alcune donne rinchiuse nel manicomio della città abruzzese ed è tratta dall’inserto del libro di Annacarla Valeriano...
I volti Questa foto di gruppo, scattata negli anni Trenta, proviene dal dipartimen­to di salute mentale della Asl di Teramo. Ritrae alcune donne rinchiuse nel manicomio della città abruzzese ed è tratta dall’inserto del libro di Annacarla Valeriano...

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