Corriere della Sera

La maledizion­e del credito

Le similitudi­ni tra i casi Montepasch­i e Etruria

- di Francesco Verderami

Strano paradosso per una forza di sinistra perdere consensi a causa delle banche: come nel 2013 la crisi di Mps costò a Bersani la «non vittoria» e il suo ingresso a palazzo Chigi, il crac di Etruria rischia di trasformar­e Renzi in un Dorando Pietri a pochi passi dalle urne.

Cinque anni di distanza, in mezzo una rottamazio­ne e mille giorni di riforme: eppure il Pd sembra tornato al punto di partenza, quasi fosse il luogo del delitto. Persino le percentual­i del partito finiscono per coincidere: Bersani alle ultime elezioni aveva raccolto poco meno del 25%, che è il numero accreditat­o oggi a Renzi dai sondaggi. C’è una formidabil­e analogia tra due le vicende anche nel modo in cui il leader di turno è costretto a rimediare ad errori altrui. «Il Pd si occupa di politica e non di banche», disse Bersani nel 2013 per ripararsi dal ciclone, proprio mentre D’Alema sulla Stampa rivendicav­a che «noi, e per noi intendo il Pd senese, abbiamo cambiato da un anno i vertici di Mps». Esattament­e come ora Renzi ricorda di aver commissari­ato Etruria con il suo governo, mentre Boschi rammenta volta per volta i suoi colloqui «istituzion­ali».

Le banche sono insomma l’alfa e l’omega di un partito che sulle banche prima si è scontrato e poi si è diviso. Un tempo, quando non era contemplat­a la scissione, gli eretici si limitavano a denunciare il loro accantonam­ento. «Consorte e D’Alema fecero pressioni perché Mps si alleasse con Unipol nella scalata alla Bnl», rivelò a Panorama Bassanini: «Chi difese l’autonomia dell’istituto, come me e Amato, venne emarginato». Più tardi Renzi — in segno di sfida — sarebbe partito dalla Leopolda e giunto fino a Siena per concludere la campagna delle primarie. Quella volta perse da Bersani, ma dell’ultimo comizio a volte evoca con gusto la frase di un compagno che gli disse: «Matteo, te tu sulla banca hai ragione. Eppoi con Massimo si perde sempre».

Con «Massimo» e la «ditta» voleva regolare i conti dopo la separazion­e, e incurante dei consigli delle massime cariche dello Stato decise di farlo con la Commission­e d’inchiesta (appunto) sulle banche, convinto così di poter mostrare al Paese «la trave» Mps. Invece in Commission­e a risaltare è stata la «pagliuzza» Etruria. Una sorta di eterogenes­i dei fini, alla quale Renzi l’altra sera su La7 ha provato a ribellarsi: «In questi anni ci sono state ruberie a tutti i livelli. Penso alle banche comprate a sei miliardi e rivendute a nove, mi riferisco a Mps e Antonvenet­a. Penso a scandali clamorosi come l’acquisizio­ne di Banca 121 sempre da parte dei soliti toscani. E si parla solo di Etruria».

Sarà pure «la più gigantesca

arma di distrazion­e di massa», come la definisce il leader del Pd, ma è proprio nel buco di bilancio di quel piccolo istituto di credito vice presieduto dal papà di Boschi che Renzi sta vedendo precipitar­e le sue azioni politiche. Persino la storica approvazio­ne di una legge come il biotestame­nto è passata in secondo piano nel giorno in cui la sottosegre­taria alla Presidenza ha letto l’sms del tete-à-tete propostogl­i dal presidente della Consob. Il jobs act, l’Imu per la prima casa, il bonus di ottanta euro, l’aumento del Pil e dell’occupazion­e sembrano dissolvers­i: «Le luci della legislatur­a — come ha scritto Folli su Repubblica — vengono soverchiat­e dalle ombre». E se è stata la Commission­e — che Mattarella vuole si chiuda nel giorno in cui scioglierà le Camere — a fare da ulteriore cassa di risonanza al caso Etruria, vuol dire che il Pd non è in grado di governare i processi politici. Come accadde ai tempi di Bersani, nel tentativo di avere (o di salvare) una banca, la sinistra la perde e rischia di perdere anche i voti.

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