Nina rompe il silenzio L’eroismo quotidiano
SULLE MOLESTIE «Nome di donna» di Mainardi e Giordana con Capotondi. I ricatti dei maschi sul lavoro
Agiugno, nel lancio di inizio ripresa di «Nome di donna», avevano accennato a un grande e non specificato «segreto» che funestava l’apparentemente placida routine di una clinica privata per anziani immersa nella bassa Lombardia.
Il grande «segreto» raccontato dal regista Marco Tullio Giordana e dalla sceneggiatrice Cristiana Mainardi e interpretato sullo schermo da Cristiana Capotondi è questo: il sopruso del potere (maschile) che ricatta le donne che lavorano. «Il potere che manifesta lati oscuri che ancora dobbiamo indagare, il potere degli uomini sulle donne, non giriamoci attorno», sottolinea Giordana. Qualcosa di più della molestia sessuale sul posto di lavoro, che poi è la bomba deflagrata con la denuncia dei comportamenti predatori di Weinstein e che poi ha provocato i suoi effetti devastanti nel mondo dello spettacolo, del giornalismo, della politica, dell’accademia. E della magistratura, come dicono le rivelazioni di questi ultimi. Un «segreto» che adesso può essere detto, nominato (mai titolo è stato più in sintonia con il tempo: «Nome di donna»), reso esplicito. Può uscire dalle catacombe della vergogna, dalle sabbie mobili dell’omertà, dall’oscurità triste della paura. Anche nei posti anonimi, senza celebrità, senza riflettori, come la clinica privata della bassa Lombardia dove Nina, la giovane donna interpretata da Cristiana Capotondi, è costretta a recitare un ruolo di vittima nel teatro di ordinaria ingiustizia che la sceneggiatrice Mainardi definisce «l’eroismo della quotidianità».
La storia di Nina, nel film che vedrà la luce al cinema nei primi mesi del 2018, è appunto la quotidianità consumata nell’ombra del sopruso non detto, o meglio di quell’indicibile che non sale mai le scale della dimensione pubblica. A chi volete che importi l’inferno a bassa intensità in cui si consumano i destini delle giovani che devono tenere nella loro interiorità il senso di un’umiliazione senza fine? «Importa a me, perciò ho pensato di scrivere questo film. Io esco spesso nell’hinterland milanese, vedo le donne nella provincia, quasi sempre straniere, dell’Est Europa, tristi, silenziose, in attesa alle fermate degli autobus o nelle piccole stazioni ferroviarie. Immagino le storie della loro vita, i lavori che danno loro la sopravvivenza, le violenze domestiche che sono costrette a subire. Nessuno sui giornali o in tv parlava delle molestie. Oggi è esploso qualcosa, è esploso mentre il film diretto da Giordana era praticamente stato girato. Sono quasi orgogliosa dell’intuizione che abbiamo avuto. O forse è solo il frutto di una fatica, la fatica di guardare nelle storie di quelle donne che non parlano mai e che nessuno conosce».
«Ho dovuto studiare», aggiunge Giordana, «non è facile capire d’istinto la solitudine di una donna quando decide di ribellarsi». Non è facile ribellarsi, per l’esattezza. Anzi, è tremendamente difficile. «Non è un film militante», dice Mainardi, «non ha una coloritura ideologica». «Non me ne sarei interessato se avessi avuto il sentore di un volantino», le fa eco Marco Tullio Giordana.
È tutto difficile. La mancata solidarietà delle colleghe, soprattutto, che subiscono il ricatto e non vogliono che nessuna rompa l’omertà e isolano chi denuncia, le bucano le gomme della bicicletta, la insultano davanti alla figlia. Le incertezze del compagno, spaccato in due dalla rabbia per l’umiliazione che Nina deve vivere e i timori per il caso che può fare clamore. Le sciatterie del sindacato, che difende le donne molestate ma non sa tutelarle adeguatamente e con forza quando la denuncia diventa esplicita. Il ruolo del potere ecclesiastico, con il potente sacerdote interpretato da Bebo Storti, che va in soccorso del predatore per non destare scandalo, ma anche per un malcelato disprezzo nei confronti di queste donne che vanno tenute a bada, nel recinto del loro silenzio. Ci sono le doppie porte della stanza del presidente davanti alle quali le donne che lavorano in clinica si accingono alla trafila umiliante che dovranno accettare se vogliono continuare ad avere quell’impiego. Ci sono le divise da infermiere che il maschio ammalato di potere pretende che le donne indossino in quei colloqui molto particolari.
Cristiana Mainardi insiste nel dire che il risvolto più difficile da accettare e da concettualizzare è il «mondo di grigi» che si addensa attorno alla figura del maschio prepotente, arrogante, ricattatore. Non c’è bianco e nero con confini netti e manichei, almeno nelle forme esteriori. Non è un mostro, non è un bruto, non è un violento. Una lavoratrice, che si era innamorata di lui, si dice stupita perché in fondo quell’uomo è pieno di fascino e chissà quante donne potrebbe avere
La sceneggiatrice «È difficile accettare il “mondo di grigi” che si addensa attorno al maschio prepotente» La vittima isolata Le colleghe le fanno il vuoto intorno, non vogliono che lei rompa il muro di omertà
senza ricorrere alla meschinità del ricatto. Ma appunto, sostiene sempre Mainardi, «la sua vera perversione è il potere». Il sesso è uno strumento del potere. Ed è assurdo, continua Giordana, che davvero non si colga il punto cruciale in cui l’avance, il corteggiamento diventa «petulanza, mettere le mani addosso per segnare una supremazia».
È questo il punto che gli uomini spesso si ostinano a non vedere. Ci sono mille sfumature, certo. Tanti «grigi». Ma poi alla fine le mille sfumature non impediscono di vedere un confine da non oltrepassare. «Nome di donna» è un film che cerca di rendere più intellegibili i punti che formano quel confine. Senza ignorare le contraddizioni, i contrasti, gli intrecci del bene e del male. Senza vittimismi, che talvolta inquinano le denunce di una molestia, di un’umiliazione, di un abuso di potere. Perché si abusa del potere come fine e obiettivo dell’abuso sessuale, e non viceversa, ciò che con tutte le complicazioni che rendono il quadro confuso alla fine diventa il punto dirimente di uno scenario di squilibrio e di disparità. Ed è un abuso che si consuma in silenzio, nei luoghi meno illuminati dalla notorietà e dunque vissuti dalle vittime con ancor maggiore disperazione, ancora maggiore rassegnazione. Quando l’«eroismo della quotidianità» non esce allo scoperto. «Nome di donna» è invece: uscire allo scoperto.