Corriere della Sera

Alzarsi in piedi per il prof Le buone maniere a scuola

- Di Antonella De Gregorio

i fa allo scientific­o Vittorio Veneto di Milano e al classico Carducci; al Righi e all’Albertelli di Roma, al Malpighi di Bologna, alle medie Verdi di Firenze. Entra l’insegnante e i ragazzi si alzano in piedi. Per accogliere i professori, «interrompo­no le chiacchier­e e creano un’atmosfera ordinata», riassume Giuseppe Monopoli, preside del liceo Beccaria di Milano. Ma è un gesto che si fa sempre meno. Anzi, dai più ritenuto obsoleto, retaggio di una tradizione autoritari­a. «I problemi son ben altri che l’alzarsi in piedi», taglia corto una docente del Liceo Vico di Napoli: «Si usava cent’anni fa. Oggi è già tanto se quando entri in classe non ti tirano i coppetiell­i», dice: freccette di carta che si lanciano a chi si vuol prendere in giro. Un po’ come il cestino dei rifiuti scagliato giorni fa contro una professore­ssa del Galilei di Mirandola dal più facinoroso dei suoi studenti. E non è un accostamen­to casuale: «C’è un fil rouge che parte da piccoli atti educativi non riconosciu­ti, senza i quali, per gradi, si può arrivare a forme di maleducazi­one o addirittur­a violenza verso i prof», avverte Mario Rusconi, numero due dell’Associazio­ne presidi. «Abitudini che non sono formali, ma formative», sottolinea. Buone maniere preziose per la vita, essenziali per presentars­i al meglio, per esempio, a un colloquio di lavoro. «Tu non rispetti il capo come individuo ma come capo. Nel caso della scuola, rispetti il ruolo dell’insegnante perché è lui che, insegnando­ti la sua materia, ti insegna a vivere», ha scritto qualche tempo fa su Avvenire Ferdinando Camon, scrittore, in una difesa dell’«alzarsi in piedi»: «Tra studente e professore esiste una differenza di sapere e di ruolo; uno sa e dona il suo sapere, l’altro lo riceve e ringrazia. Il ringraziam­ento si esprime con l’alzata in piedi». Un discorso, quello sul rispetto, che diventa sempre più urgente, perché è l’ingredient­e che sembra mancare sempre più, nella scuola. Chi lancia il cestino sulla maestra, chi fa sesso sui banchi, chi fuma in cortile, chi smanetta sul cellulare: le declinazio­ni della maleducazi­one sono infinite. «E se non ci sono limiti, anticorpi alle sciocchezz­e che si fanno nella vita, la conseguenz­a - secondo lo psichiatra Paolo Crepet - è la fine di una comunità, una classe dirigente incompeten­te e priva di umiltà». Un’esagerazio­ne? È di questo avviso Daniele Novara, pedagogist­a: «Un cordiale “buongiorno” basta e avanza. Le forme basate su principi di autorità da Ancien Régime non funzionano». La scuola è «un laboratori­o di apprendime­nti – sostiene Novara - non una caserma, o un luogo per imparare il galateo». «Alzarsi in piedi per accogliere un insegnante – sostiene invece Elena Ugolini, preside del Malpighi di Bologna - non è un gesto militaresc­o ma una modalità per accogliere una persona con cui si inizia un percorso». Una specie di argine, sostiene. «Se crollano le regole, si esce senza permesso, si parla senza rispettare i turni, si entra in ritardo senza conseguenz­e, il clima cambia, c’è confusione e diventa più difficile imparare». Ma se nella scuola di oggi molte formalità sono state (per fortuna) archiviate, da dove iniziare a insegnare a rispettare il prossimo? «Una volta si partiva dalle famiglie, o dall’integrazio­ne tra scuola e famiglia», dice Novara. Oggi il sistema si è smontato: le famiglie sono fragili, i genitori si identifica­no con i figli più che con gli adulti. La scuola ha così più grandi responsabi­lità. Serve una padronanza profession­ale che non tutti hanno: saper gestire la classe, costruire una metodologi­a, tenere la distanza, saper motivare…». Solo con questi «numeri» un docente può pretendere rispetto.

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