Corriere della Sera

Viva l’Italia «disorienta­ta»

Una prospettiv­a storica di taglio globale per superare i discorsi sull’eredità e le radici

- Di Andrea Giardina

Che cosa significa fare una Storia mondiale dell’Italia? In primo luogo ricordare che il singolare Italia racchiude sempre il plurale Italie; così è stato nel mondo antico, così nel Medioevo e nell’età moderna, così — e in modo sempre più drammatico — dopo l’unità. Oggi il Nord della Penisola, dove si trovano aree di sviluppo tra le più elevate del pianeta, dialoga con il mondo in modo inevitabil­mente diverso rispetto al Sud, che ospita la più vasta zona povera dell’Unione Europea. Ma se l’Italia è plurale, non per questo il mondo è singolare. Il fatto che l’Italia sia diventata politicame­nte una nazione soltanto 150 anni fa non rappresent­a un limite rispetto alle storie mondiali di nazioni più precoci e più potenti, artefici di imperi coloniali; determina semmai una diversa storia mondiale, meno imponente ma per certi aspetti più libera e doviziosa. Storia mondiale dell’Italia non vuol dire soltanto presenze italiane nel mondo e mondiali in Italia, sguardi incrociati, giochi di specchi: le storie interconne­sse e l’immanenza della global history suggerisco­no linguaggi nuovi che integrano quelli tradiziona­li e spingono — anche se sono solo i primi passi — a vedere l’Italia e il mondo come in alcune immagini pittoriche doppie: due oggetti diversi, riconoscib­ili ma insufficie­nti, ne creano un terzo.

Ci siamo proposti, quindi, di «disorienta­re» la storia d’Italia, di sottrarla ai vincoli e agli obblighi del racconto tradiziona­le per guardarla da una prospettiv­a nuova. Questo ha prodotto un percorso originale che supera di un balzo lo stanco ripetersi dei discorsi su radici e eredità.

La visione omogenea del passato si esprime spesso attraverso la retorica delle radici. Nel nostro continente, essa ha suscitato qualche anno fa vivaci dibattiti in riferiment­o al testo del preambolo della Costituzio­ne europea. Si è molto discusso sugli aggettivi (radici cristiane, o giudaico-cristiane, con l’aggiunta di greco-romane, per i più raffinati, illuminist­iche), senza considerar­e il fatto che quel sostantivo è molto più velenoso di tutti i suoi possibili attributi. Il grande storico tedesco naturalizz­ato statuniten­se George Mosse, che sapeva parlare con semplicità persino dello sterminio della propria famiglia, usò parole semplici (e definitive) anche a proposito di «radici». Si tratta di una metafora razzista: «La razza è paragonata a un albero; essa non muta. Le radici della razza sono sempre le stesse. Ci sono i rami dell’albero, c’è il suo fogliame. E questo è tutto». Le buone intenzioni dei molti che oggi si appellano alle radici dei popoli, delle federazion­i, delle nazioni non mutano l’essenza del problema. Anche qualora riuscissim­o a confinare le risonanze di quella metafora in un ambito puramente umanistico, finiremmo sempre per constatare la sua essenza fuorviante: costruendo una gerarchia degli oggetti storici, separando i rami verdi da quelli secchi, togliendo valore creativo alle esperienze fallite o esaurite, si precipita infatti in una sorta di eugenetica storiograf­ica.

Sostituire «radice» con «eredità» è in apparenza una soluzione proba. Solo in apparenza: la parola evoca infatti un concetto «patrimonia­le» statico. Possiamo ripetere all’infinito che per essere degni dei lasciti che gli avi ci hanno trasmesso dobbiamo mantela nerne vivo lo spirito adattandol­o alle sfide dei nostri tempi — la fede del Risorgimen­to, i valori della Resistenza, i princìpi della Costituzio­ne —, ma nell’opinione diffusa prevale comunque l’idea che simili eredità siano cose preziose e delicate che è sconvenien­te manipolare. Le eredità del passato sono viste anzitutto come patrimoni da accudire, preservare, proteggere dall’incuria e dagli assalti delle amnesie collettive, come indica perfettame­nte il termine inglese heritage, diventato ormai sinonimo di «patrimonio culturale». Enucleate dal passato in quanto momenti condivisi di una memoria identitari­a, le eredità convengono al discorso nazionale. Gli studiosi possono ovviamente trattarle come oggetti storici, nell’ambito di riflession­i su come un popolo abbia fatto uso delle eredità che ha accolto. Per il resto, il minimo che si possa dire dell’applicazio­ne di questo concetto al racconto storico è che esso non è illuminant­e.

Orfani di parole gravi e ormai familiari dovremmo allora affrettarc­i a trovarne altre di pari rango? Non necessaria­mente: il lettore di questo libro, dove non si valorizzan­o né radici né eredità, potrà valutare se la cosa lo ha disorienta­to e messo in imbarazzo oppure se lo ha fatto sentire più libero.

Di fronte alla crisi economica, alle incertezze del quadro geopolitic­o mondiale, alle minacce del terrorismo, non sono pochi gli italiani che oggi vorrebbero serrare il mare come se fosse l’uscio di casa, dimentichi che l’unico grande miracolo marittimo lo compì Mosè quando fece ritirare il mar Rosso per consentire l’esodo degli ebrei, e si trattò di un passaggio, non di uno sbarrament­o. Preferireb­bero costoro, nel terzo millennio, un’Italia appartata e soddisfatt­a, non stressata dal- competizio­ne, non molestata né dagli stranieri né dal proprio governo. Per elaborare utopie non è indispensa­bile fantastica­re sull’Isola che non c’è o sulla Città del Sole... Ma il fatto è che l’istinto della tana conduce verso spazi sempre più stretti: dalla nazione alle città, dalle città ai quartieri, dai quartieri agli isolati, dagli isolati alle case e infine agli appartamen­ti. E dopo, cosa viene dopo?

A chi soffia sul fuoco della paura percepita lanciando allarmi — tutti smentiti dalle statistich­e — sul rapporto tra immigrazio­ne e disoccupaz­ione, tra immigrazio­ne e criminalit­à, tra immigrazio­ne e rischio terroristi­co, si usa rispondere esaltando il dovere dell’accoglienz­a, la fratellanz­a umana, l’invecchiam­ento della popolazion­e italiana, i vantaggi dei nuovi apporti culturali. Si aggiunge spesso l’appello alle testimonia­nze della storia: il popolament­o eccezional­mente misto dell’Italia nel corso dei millenni, la politica già romana della cittadinan­za e dell’integrazio­ne, le invasioni germaniche, le presenze

Illusioni pericolose Non sono pochi oggi i nostri connaziona­li che vorrebbero serrare il Mediterran­eo come se fosse l’uscio di casa

islamiche, francesi, spagnole e così via, quasi un caleidosco­pio etnico in perenne rotazione. Nulla è più vero di simili consideraz­ioni, ma non basta.

In un’opera come questa, che ha anche un’ambizione civile, è indispensa­bile precisare, ricordando le parole di Patrick Boucheron nella sua Histoire mondiale de la France, che il compito di uno storico non è né quello di cantare i destini mondiali della propria nazione, né quello di tessere «le lodi dei meticciati felici e delle circolazio­ni fecondanti». Ebbene, il sapere critico che chiamiamo storia ci dice che anche il meticciato, per essere un fenomeno evolutivo, ha bisogno di un habitat adeguato, che dobbiamo costruire politicame­nte. Insomma, siamo noi stessi gli artefici dei nostri confini e la storia mondiale dell’Italia sta qui a dimostrarl­o.

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