LA RIPRESA E LE OMBRE
Èdifficile fare un bilancio della legislatura che sta per finire. I renziani dicono che è stato fatto tutto bene tranne l’errore del referendum, gli anti renziani che il referendum è andato male perché era già stato sbagliato tutto. In realtà i dati dell’economia reale sono molto migliori oggi che cinque anni fa. Ovviamente è dipeso dal cambio di scenario mondiale e dalla abbondante liquidità fornita dalla Bce di Draghi, e anzi bisogna lamentare che pure in un periodo di ripresa il nostro Paese cresce comunque meno dei partner europei. Però se i governi non possono molto per far bere il cavallo dell’economia quando sta fermo, possono azzopparlo con mosse sbagliate o improvvide. Bisogna oggi ammettere che né gli 80 euro, né il Jobs act, né la abbondante spesa pubblica in deficit di questi anni hanno fatto i danni di cui parla l’opposizione. Anzi, misure come gli incentivi alle assunzioni e i super ammortamenti hanno aiutato le aziende e favorito l’occupazione. Piuttosto andrebbe notato come la ripresa, stentata nei primi tempi del governo Renzi, abbia poi avuto una forte accelerazione con l’arrivo di Gentiloni a Palazzo Chigi.
Si vede che il nuovo premier ha iniettato nel sistema una buona dose di stabilità e di fiducia, questi sì beni primari che la politica può fornire all’economia. Resta aperto l’immenso buco nero, psicologico prima ancora che sociale, di una generazione senza un lavoro stabile, che tiene acceso nel Paese quel rancore di cui ci ha parlato di recente il Censis.
Dal punto di vista della riforma della politica, che era l’altro grande obiettivo di questi cinque anni, la diciassettesima legislatura si conclude invece con un fallimento totale: un giro di giostra alla fine del quale i problemi sono identici a prima. La legge elettorale è una pezza a colore, ed è destinata prima o poi a essere cambiata di nuovo, per la quarta volta in 25 anni. Del resto il sistema politico è rimasto così tripolare che qualsiasi sistema rischierebbe di fallire l’obiettivo della governabilità. Il cosiddetto populismo, che Renzi promise di battere, è oggi forse anche più forte di cinque anni fa, non certo più debole, e meno che mai sconfitto. E l’assetto costituzionale, con le sue magagne, è quello di sempre perché la riforma Renzi-Boschi è stata bocciata senza appello dagli italiani in una consultazione referendaria, così libera e democratica che secondo i sondaggi se si votasse oggi, un anno dopo, il risultato sarebbe identico.
Il Pd ha sempre attribuito la sconfitta al malumore nei confronti del governo o alla personalizzazione fatta da Renzi. Ma la prima spiegazione suona
strana sulle labbra di chi sostiene che il governo ha fatto bene in tutti gli altri campi. E la seconda trascura il fatto che quando Renzi avviò la campagna, e cioè nella conferenza stampa di fine 2015, il suo consenso era così alle stelle che minacciare le dimissioni in caso di sconfitta sembrava piuttosto il modo migliore per vincere.
In realtà Renzi non ha sbagliato perché ha personalizzato un progetto politico, ma perché ha presentato un progetto di personalizzazione del comando. Il plebiscito che ha chiesto agli elettori con il referendum suonava pressappoco così: volete voi dare più potere al leader del partito di maggioranza, cioè a me, eleggendolo direttamente capo del governo con un ballottaggio a due e così tagliando fuori le mediazioni parlamentari, abolendo di fatto una Camera e mandando a casa centinaia di parlamentari? Che ci piaccia
o no, il Paese, a grande maggioranza, ha detto no. Non ha accettato che si costruisse una leadership, mai testata prima in più consone elezioni politiche, usando la Costituzione. E così ha finito con il conservare anche ciò che nella Carta meritava di essere cambiato.
Il risultato del voto andava perciò preso per quello che era, e cioè la bocciatura del disegno di un leader che era tutt’altro che antipatico quando l’ha proposto, anzi, ma forse lo è diventato proprio per quello. Prova ne sia l’affluenza altissima che il referendum ha avuto (e allo stesso modo quello sull’autonomia in Veneto), in contrasto con il crollo della partecipazione nelle elezioni locali: quasi a dire che gli italiani tengono molto di più all’essenziale che alle ginnastiche belliche dei partiti a Ostia o in Emilia.
Se il referendum fosse stato preso sul serio, il Pd non avreb- be commesso l’errore di lasciare al governo, dopo la sconfitta, l’autrice della riforma, Maria Elena Boschi, neanche fornita di quella rilegittimazione che Renzi si è dato con le primarie. Nel suo volto si è così incarnato ciò che restava di quel progetto di personalizzazione del comando, al punto da concentrare su di sé l’impopolarità accumulata dal cerchio di amicizie e sodalizi che sembrava aver tentato, e fallito, la scalata al potere.
Ora Gentiloni dice che Boschi «ha chiarito tutto» sulla vicenda di Banca Etruria. Ovviamente è una bugia, per quanto affettuosa nei confronti del suo sottosegretario. Ma anche al di là delle effettive responsabilità personali dell’ex ministro, è il disegno politico di cui è stata il simbolo che è morto e sepolto. Prima se ne accorge il Pd e meglio sarà per lui. Se non è già troppo tardi.