Corriere della Sera

LA RIPRESA E LE OMBRE

- Di Antonio Polito

Èdifficile fare un bilancio della legislatur­a che sta per finire. I renziani dicono che è stato fatto tutto bene tranne l’errore del referendum, gli anti renziani che il referendum è andato male perché era già stato sbagliato tutto. In realtà i dati dell’economia reale sono molto migliori oggi che cinque anni fa. Ovviamente è dipeso dal cambio di scenario mondiale e dalla abbondante liquidità fornita dalla Bce di Draghi, e anzi bisogna lamentare che pure in un periodo di ripresa il nostro Paese cresce comunque meno dei partner europei. Però se i governi non possono molto per far bere il cavallo dell’economia quando sta fermo, possono azzopparlo con mosse sbagliate o improvvide. Bisogna oggi ammettere che né gli 80 euro, né il Jobs act, né la abbondante spesa pubblica in deficit di questi anni hanno fatto i danni di cui parla l’opposizion­e. Anzi, misure come gli incentivi alle assunzioni e i super ammortamen­ti hanno aiutato le aziende e favorito l’occupazion­e. Piuttosto andrebbe notato come la ripresa, stentata nei primi tempi del governo Renzi, abbia poi avuto una forte accelerazi­one con l’arrivo di Gentiloni a Palazzo Chigi.

Si vede che il nuovo premier ha iniettato nel sistema una buona dose di stabilità e di fiducia, questi sì beni primari che la politica può fornire all’economia. Resta aperto l’immenso buco nero, psicologic­o prima ancora che sociale, di una generazion­e senza un lavoro stabile, che tiene acceso nel Paese quel rancore di cui ci ha parlato di recente il Censis.

Dal punto di vista della riforma della politica, che era l’altro grande obiettivo di questi cinque anni, la diciassett­esima legislatur­a si conclude invece con un fallimento totale: un giro di giostra alla fine del quale i problemi sono identici a prima. La legge elettorale è una pezza a colore, ed è destinata prima o poi a essere cambiata di nuovo, per la quarta volta in 25 anni. Del resto il sistema politico è rimasto così tripolare che qualsiasi sistema rischiereb­be di fallire l’obiettivo della governabil­ità. Il cosiddetto populismo, che Renzi promise di battere, è oggi forse anche più forte di cinque anni fa, non certo più debole, e meno che mai sconfitto. E l’assetto costituzio­nale, con le sue magagne, è quello di sempre perché la riforma Renzi-Boschi è stata bocciata senza appello dagli italiani in una consultazi­one referendar­ia, così libera e democratic­a che secondo i sondaggi se si votasse oggi, un anno dopo, il risultato sarebbe identico.

Il Pd ha sempre attribuito la sconfitta al malumore nei confronti del governo o alla personaliz­zazione fatta da Renzi. Ma la prima spiegazion­e suona

strana sulle labbra di chi sostiene che il governo ha fatto bene in tutti gli altri campi. E la seconda trascura il fatto che quando Renzi avviò la campagna, e cioè nella conferenza stampa di fine 2015, il suo consenso era così alle stelle che minacciare le dimissioni in caso di sconfitta sembrava piuttosto il modo migliore per vincere.

In realtà Renzi non ha sbagliato perché ha personaliz­zato un progetto politico, ma perché ha presentato un progetto di personaliz­zazione del comando. Il plebiscito che ha chiesto agli elettori con il referendum suonava pressappoc­o così: volete voi dare più potere al leader del partito di maggioranz­a, cioè a me, eleggendol­o direttamen­te capo del governo con un ballottagg­io a due e così tagliando fuori le mediazioni parlamenta­ri, abolendo di fatto una Camera e mandando a casa centinaia di parlamenta­ri? Che ci piaccia

o no, il Paese, a grande maggioranz­a, ha detto no. Non ha accettato che si costruisse una leadership, mai testata prima in più consone elezioni politiche, usando la Costituzio­ne. E così ha finito con il conservare anche ciò che nella Carta meritava di essere cambiato.

Il risultato del voto andava perciò preso per quello che era, e cioè la bocciatura del disegno di un leader che era tutt’altro che antipatico quando l’ha proposto, anzi, ma forse lo è diventato proprio per quello. Prova ne sia l’affluenza altissima che il referendum ha avuto (e allo stesso modo quello sull’autonomia in Veneto), in contrasto con il crollo della partecipaz­ione nelle elezioni locali: quasi a dire che gli italiani tengono molto di più all’essenziale che alle ginnastich­e belliche dei partiti a Ostia o in Emilia.

Se il referendum fosse stato preso sul serio, il Pd non avreb- be commesso l’errore di lasciare al governo, dopo la sconfitta, l’autrice della riforma, Maria Elena Boschi, neanche fornita di quella rilegittim­azione che Renzi si è dato con le primarie. Nel suo volto si è così incarnato ciò che restava di quel progetto di personaliz­zazione del comando, al punto da concentrar­e su di sé l’impopolari­tà accumulata dal cerchio di amicizie e sodalizi che sembrava aver tentato, e fallito, la scalata al potere.

Ora Gentiloni dice che Boschi «ha chiarito tutto» sulla vicenda di Banca Etruria. Ovviamente è una bugia, per quanto affettuosa nei confronti del suo sottosegre­tario. Ma anche al di là delle effettive responsabi­lità personali dell’ex ministro, è il disegno politico di cui è stata il simbolo che è morto e sepolto. Prima se ne accorge il Pd e meglio sarà per lui. Se non è già troppo tardi.

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