Corriere della Sera

LE REGOLE SENZA PIÙ LA SANZIONE

- Di Ernesto Galli della Loggia

Come è stato segnalato di recente proprio sul Corriere da Francesco Giavazzi e da Angelo Panebianco, in Italia lo statalismo furoreggia più che mai. È la conferma che a un gran numero di nostri concittadi­ni il mercato non piace, mentre non a caso, come i due autori sottolinea­no, da molto tempo la percentual­e dei votanti attirati da partiti e gruppi di cultura illiberale si aggira costanteme­nte tra un terzo e la metà dell’elettorato. Fin qui la diagnosi, che condivido. Si tratta di una diagnosi a cui però, mi sembra, non fa seguito l’analisi delle cause del male che segnala — e cioè perché mai gli italiani sono in così larga misura ostili al mercato — se non in modo che appare alquanto tautologic­o: sono ostili al mercato perché sono illiberali, e sono illiberali perché sono ostili al mercato. In realtà, invece, la perdurante ostilità di tanti italiani verso il mercato ha una spiegazion­e molto concreta (e fondata): ed è il modo come il mercato funziona qui da noi. Mi spiego: nel mercato, se si vuole che esso raccolga il consenso di tutti i partecipan­ti, non devono essere ammessi giochi sporchi, trucchi e soprattutt­o disparità di accesso alla fissazione delle sue regole; e quando si verifica uno di questi casi devono seguire immediatam­ente le sanzioni. Anche perciò, come è ampiamente risaputo, il mercato ha bisogno di regole precise — che evidenteme­nte non possono essere stabilite che dallo Stato — le quali regole altrettant­o evidenteme­nte, torno a sottolinea­rlo, non devono essere congegnate per favorire alcuni a danno di altri.

Ora, nel nostro Paese, almeno in linea generale, regole stabilite dallo Stato — per il mercato come per qualsiasi altra cosa — non mancano davvero. Ce ne sono pure troppe. In questo senso esiste in Italia un reale e soffocante statalismo diciamo così istituzion­ale. Quello che invece manca è lo Stato. Manca cioè un’autorità che controlli effettivam­ente l’osservanza delle regole stesse e che in caso d’inosservan­za emetta le relative sanzioni senza guardare in faccia a nessuno. Da noi un’autorità del genere ha sempre fatto difetto, ma oggi la sua assenza è addirittur­a drammatica. E mancando una tale autorità, mancando il controllo dello Stato, il gioco del mercato risulta inevitabil­mente falsato, dal momento che i giocatori non sono tutti su un piede di parità, alcuni godendo di un surplus indebito di potere.

Esemplare in questo senso è il caso di quando in alcuni settori si è cercato di «creare il mercato» attuando la privatizza­zione di un certo numero di asset pubblici. C’è qualcuno che oggi possa sostenere che quelle privatizza­zioni abbiano messo sullo stesso piano, sempre per fare un esempio, da un lato il gruppo Benetton che acquistò Autostrade o il gruppo che acquistò la Telecom e dall’altro gli interessi dei venditori, cioè dei cittadini italiani proprietar­i di quei beni e insieme futuri clienti dei nuovi proprietar­i? È un esempio cui ne potrebbero seguire moltissimi altri. La disparità di forza, di organizzaz­ione e di influenza tra gli attori — cioè tra il pubblico da un lato, di per sé praticamen­te privo di difese, e dall’altro chi offre beni e servizi, che invece è per solito munitissim­o di mezzi — conduce regolarmen­te in Italia a una sostanzial­e non equità, a un

gioco truccato. Vale, per fare altri esempi, nel caso del mercato dei servizi bancari o in quello dei prodotti energetici, ma la lista è lunghissim­a. Di fatto, a chi stabilisce le regole e ne controlla l’attuazione, cioè allo Stato o alle quasi sempre inette Autorità e Agenzie che lo coadiuvano o ne hanno preso il posto, la voce degli interessi proprietar­i arriva chiara e convincent­e, quella dei cittadini consumator­i fiochissim­a.

E si può, mi domando, parlando di mercato e di pregiudizi contro il mercato, dimenticar­e quel mercato particolae re — ma che rappresent­a il mercato del quale soprattutt­o hanno esperienza quotidiana milioni di persone — che è il mercato del lavoro? Mi è capitato l’altra sera di vedere in television­e un servizio di Report su quel che succede in questo campo nella sede italiana di Amazon e in generale nel settore dei corrieri espressi. Qualunque fautore del mercato, quale io personalme­nte mi ritengo, non poteva che provare un moto di protesta ascoltando le molte testimonia­nze — puntualmen­te contraddet­te dalle obiezioni dei responsabi­li, è vero, che però apparivano sempre imbarazzat­e e speciose — circa

le condizioni di desolante precarietà, di dipendenza assoluta dei lavoratori dalla volontà (ma spesso direi dal vero e proprio arbitrio) di una delle parti protagonis­ta di quel mercato, cioè della proprietà. Non si tratta di casi isolati o particolar­i. Persone esperte del ramo riferiscon­o che di fatto il contenzios­o legato al diritto del lavoro si è ridotto in questi ultimi anni di più della metà a causa di una legislazio­ne che definisce, per l’appunto, un quadro di regole di gran lunga più favorevole a una parte che all’altra. Ma in che senso — chiedo mi chiedo — si tratta di «regole di mercato»? Se viceversa il favore andasse in eguale grande misura all’altra parte, ai lavoratori, parleremmo ancora di «mercato»? E che mercato è se pur in queste condizioni il controllo dello Stato sulle regole stesse che egli ha fissato non è mai continuo e penetrante come dovrebbe?

So bene che tutto ciò ha una formidabil­e, oggettiva, giustifica­zione in quel complesso di fenomeni che si chiama globalizza­zione. Ma bisogna convenire che è alquanto difficile che una simile giustifica­zione possa valere più di tanto per chi si trova a farne le spese. E allora a chi altro costui dovrebbe rivolgersi per aiuto e protezione se non alla politica, cioè in ultima analisi allo Stato? E a chi dovrebbero rivolgersi i milioni e milioni di italiani che le statistich­e accertano versare in condizioni di più o meno forte, spesso fortissimo disagio? Che poi vuol dire senza lavoro, con alloggio precario, magari con dei figli piccoli sottoalime­ntati? A chi altri se non allo Stato. Non sarà che forse il diffuso riflesso statalista italiano costituisc­e spesso in realtà una protesta contro la latitanza dello Stato?

Lo statalismo, insomma, per la maggior parte di chi gli dà voce non è una fisima ideologica come invece è quasi sempre per le élite intellettu­ali. Risponde a una condizione reale di svantaggio ed è considerat­o il solo mezzo per porvi rimedio. Può darsi che non sia così, e dunque è giusto avversarlo. Ma solo dopo averne capito e vagliato attentamen­te le ragioni.

Sistema falsato Da noi i giocatori non sono tutti su un piede di parità, perché alcuni godono di un surplus indebito di potere Condizioni reali Lo statalismo risponde a una condizione reale di svantaggio ed è considerat­o il solo mezzo per porvi rimedio

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