Corriere della Sera

Incarichi ai «soliti» per 446 anni Ecco il potere nelle banche locali

In 13 istituti sempre gli stessi nomi al vertice. E ruoli che passano di padre in figlio

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salvata in extremis ad opera della Bcc di Roma (il cui presidente, l’ottantenne Francesco Liberati, è ai vertici da quando trent’anni fa diventò direttore generale). Quasi banale in questo quadro è poi il curriculum del dentista Amedeo Piva, che nel 2014 si dimette dalla Banca del Veneziano in dissesto dopo vent’anni al timone.

Non tutti i poteri interminab­ili finiscono in rovina, anche se spesso coincidono con situazioni delicate. Al Credito Valtelline­se, che ha in corso un maxi-aumento di capitale essenziale alla sopravvive­nza, il 79enne Giovanni De Censi è ai vertici da 36 anni: direttore generale, amministra­tore delegato, quindi presidente e dal 2016 presidente onorario. Alla Popolare di Sondrio, più robusta, Piero Melazzini ha operato ai vertici per 45 anni prima di lasciare a 84 anni, pochi mesi prima di morire. E Enrico Fabbri ha presieduto la Popolare di Lajatico (Pisa) dal primo choc petrolifer­o fino a dopo la crisi dell’euro.

Spiccano poi i fenomeni dinastici del Sud. La Banca Popolare Pugliese nelle varie incarnazio­ni viene guidata per 80 anni da un Primiceri, il padre Giorgio o il figlio Vito. La Popolare di Bari dopo 57 anni è alla terza generazion­e di leadership della famiglia Jacobini. Interessan­te anche il caso di Banca Popolare Etica: il fondatore di 19 anni fa è l’attuale presidente Ugo Biggeri, un ingegnere ambientale che da allora ha quasi sempre ricoperto cariche di vertice nel gruppo e oggi (in potenziale conflitto d’interessi) guida anche la società di gestione del risparmio a esso collegata.

In tutto fa quasi mezzo millennio di potere, e la lista potrebbe continuare. Alcune di queste aziende si trovano in un passabile stato di salute, ma nel complesso il nesso fra la lunghezza dei mandati al vertice e i dissesti bancari sembra evidente. Il passare del tempo radica reti di clientele locali, scambi di favori fra politici, notabili e manager e credito concesso a progetti improbabil­i. Spesso — non sempre — ciò avviene in istituti popolari o di credito cooperativ­o, dove una testa vale sempre un voto e la tendenza dei presidenti a concedere prestiti facili ai propri (ri)elettori in assemblea porta poi ai default bancari. Così in Italia la ricchezza si è trasferita dai risparmiat­ori a certi debitori insolventi. Non a caso uno studio recente di Fabiano Schivardi, Enrico Sette e Guido Tabellini rivela ciò che era legittimo sospettare: nel Paese durante la crisi le impresezom­bie, quelle improdutti­ve, hanno ricevuto relativame­nte più credito di quelle sane.

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