Inedito, indimenticabile Campanile
L’umorista scriveva ovunque e conservava tutto. Quei bigliettini (finora) dispersi sono raccolti in un libro
Ma è mai possibile — si domanda Achille Campanile in Grazie, arcavolo!, il volume stampato da Aragno nel quale sono raccolti i suoi scritti inediti e dispersi — che ad arrivare con venti anni di ritardo siano solo le cartoline e mai una volta le lettere? E perché il ritardo non è mai di diciannove o ventuno, bensì sempre di venti anni precisi, e di regola chi riceve la cartolina è vivo, mentre il mittente è morto? Degna di riflessione è anche la storia delle rivoltelle. Quante volte, infatti, uno apre il giornale e legge: «Uccide un compagno maneggiando una rivoltella che credeva scarica». Ma è mai possibile che nessuno abbia ancora capito che le rivoltelle che uno crede siano scariche, invece sono cariche? E che maneggiando le rivoltelle si uccidono i compagni? «E se non l’hanno capito quelli che maneggiano le rivoltelle, come mai non lo capiscono i compagni che sono più interessati alla cosa? E perché quei tali maneggiano rivoltelle sempre in presenza dei compagni? Come mai il compagno non si mette in salvo appena vede l’altro che maneggia la rivoltella?». Altra cosa strana è quella delle pinze che i chirurghi dimenticano nel corpo dei pazienti: «Possibile che costoro tengano in così poco conto i loro ferri del mestiere?». Per non parlare di una tragedia che avviene quasi quotidianamente sulle strade ferrate: «Rimane con un piede impigliato nelle rotaie ed è stritolato dal treno». Se si leggessero di più i giornali — sostiene Campanile — la gente farebbe più attenzione. Perché un dato di fatto si può stabilire con certezza: e cioè che, praticamente sempre, chi attraversa una strada ferrata rimane col piede impigliato nei binari; e quasi sempre, quando si resta col piede impigliato, «sopraggiunge un direttissimo». Ma la cosa più strana in senso assoluto «è che il piede può spesso restare impigliato in molte cose e lo si può liberare con relativa facilità; ma quando resta impigliato in una rotaia e sta sopraggiungendo un treno non si riesce in nessun modo a liberarlo».
Questi, e altri gioielli — veri e propri — il lettore scoprirà nel volume che i due curatori, Angelo Cannatà e Silvio Moretti, hanno messo insieme traendoli dallo sterminato archivio dell’autore delle Tragedie in due battute, di Battista al Giro d’Italia, di In campagna è un’altra cosa, di Agosto moglie mia non ti conosco, di Centocinquanta la gallina canta, e di tutti quegli altri romanzi infallibili, di tutti quegli infallibili e perfetti testi teatrali che all’inizio la gente non capiva (a teatro fischiavano, ululavano, volevano indietro i soldi del biglietto — Campanile, paziente, aspettava dietro le quinte, finalmente usciva sul palcoscenico e diceva: «Se state buoni ve ne facciamo un altro pezzettino»), ma poi col tempo sono diventati dei classici che hanno deliziato e fatto ridere alle lacrime intere generazioni. Verrà a conoscenza di altre notizie quantomeno bizzarre, quali quelle riguardanti il signor Jules Dupont, la cui casa — trovandosi lui da più di un anno in Tibet per alcune esplorazioni — è stata alliedi tata dalla nascita di un bambino (fatto, questo, per puro caso, simile a quanto accaduto al signor Carlo Dupont, che di Jules Dupont non è né parente né amico, ma soltanto con lui condivide, oltre alla passione per le esplorazioni che lo ha tenuto lontano da sua moglie Celeste Dupont per ben tre anni, in Alaska, la gioia di un felice parto addirittura trigemino). Riscoprirà le melanconie del Cuore, il romanzo di De Amicis. Saprà cos’è la «sordiglina», e cioè un canto muto, ma non muto come quello della Butterfly, proprio muto, inascoltabile, praticato da un virtuoso, tale Frangipane, capace di eseguire musiche di Bellini, Paganini, Wagner, Rossini, e intere sinfonie mute di Beethoven. Entrerà in una famiglia di lettori maniaci di libri polizieschi a tutte le ore del giorno e della notte; converrà col vecchio signor Filiberto che i libri polizieschi sono di gran lunga migliori dei gialli teatrali, soprattutto quelli inglesi, perché lì succede sempre la stessa cosa (vale a dire: a un certo punto va via la luce e quando torna si trova sempre che uno è stato assassinato); diventerà pure lui lettore maniaco di libri gialli; imparerà, fra le regole fondamentali del vivere, che non bisogna mai avere maggiordomi affezionati dentro casa, e mai promettere loro lasciti testamentari, essendo i maggiordomi — come le governanti: quelle «vecchie zitelle inacidite» — capaci dei peggiori misfatti.
Era davvero sterminato l’archivio di Achille Campanile — abituato a scrivere sui pezzetti di carta, nel retro delle buste, a conservare tutto — e disordinato all’inverosimile, prima che lo sistemasse per bene suo figlio Gaetano. Leggendo le note dei curatori di Grazie, arcavolo!, me li sono ricordati quei foglietti senza titolo, quelle copie vecchi articoli pubblicati, e poi dimenticati, su «Il Settebello», sulla «Gazzetta del Popolo», sui molti giornali ai quali Campanile ha collaborato, fino all’«Europeo».
Io, al primo impiego nell’ufficio romano della Rizzoli, arrivavo a Lariano — nella famosa casa di campagna senza nulla di campestre: né una pianta, né un filare di viti, né un albero da frutto, soltanto un tacchino, ormai tante volte descritta — un po’ prima dell’ora di pranzo. Avevo con me delle bozze da far correggere; dovevo ritrovare dei vecchi contratti; verificare se esistessero delle copie; controllare delle date. Venivo accolto da Pinuccia, l’intrepida moglie di Achille con la metà dei suoi anni, già indaffarata per mettere a tavola, fra conoscenti, parenti, veri e propri sconosciuti, ogni giorno una quindicina di persone. Lui scendeva con comodo, ancora in pigiama, con quella meravigliosa barba bianca, quel sorriso superiore, inimitabile. E cominciava la solita sarabanda — scatole di scarpe con dentro contratti, fogli spaiati, cartelle introvabili, contratti introvabili, urla di Pinuccia, finte ammissioni colpevoli di Achille, altre scatole di scarpe — che in tutto e per tutto non rassomigliava, era una scena di un suo romanzo. Poi cominciava il pranzo, quasi sempre identico: prosciutto crudo e gamberi fritti. Gli ospiti affamati e chiassosissimi; Campanile a capo tavola felice e muto.
Era molto bello. Ma più belle di tutte erano le cene. In particolare quelle sotto Natale, alle quali mi veniva spesso concesso di portare qualche ammiratore che di Campanile sapeva a memoria tutto, e inutilmente sperava che lui raccontasse qualcosa, mentre invece lui mangiava i gamberi e non raccontava mai niente. Aveva scritto cose meravigliose, indimenticabili. Fuori faceva freddo, c’era l’albero con i lumini. E lì, attorno a quella lunga tavola, si respirava la pace che, in silenzio, sapeva effondere quell’uomo straordinario.