Corriere della Sera

Inedito, indimentic­abile Campanile

L’umorista scriveva ovunque e conservava tutto. Quei bigliettin­i (finora) dispersi sono raccolti in un libro

- Di Giorgio Montefosch­i

Ma è mai possibile — si domanda Achille Campanile in Grazie, arcavolo!, il volume stampato da Aragno nel quale sono raccolti i suoi scritti inediti e dispersi — che ad arrivare con venti anni di ritardo siano solo le cartoline e mai una volta le lettere? E perché il ritardo non è mai di diciannove o ventuno, bensì sempre di venti anni precisi, e di regola chi riceve la cartolina è vivo, mentre il mittente è morto? Degna di riflession­e è anche la storia delle rivoltelle. Quante volte, infatti, uno apre il giornale e legge: «Uccide un compagno maneggiand­o una rivoltella che credeva scarica». Ma è mai possibile che nessuno abbia ancora capito che le rivoltelle che uno crede siano scariche, invece sono cariche? E che maneggiand­o le rivoltelle si uccidono i compagni? «E se non l’hanno capito quelli che maneggiano le rivoltelle, come mai non lo capiscono i compagni che sono più interessat­i alla cosa? E perché quei tali maneggiano rivoltelle sempre in presenza dei compagni? Come mai il compagno non si mette in salvo appena vede l’altro che maneggia la rivoltella?». Altra cosa strana è quella delle pinze che i chirurghi dimentican­o nel corpo dei pazienti: «Possibile che costoro tengano in così poco conto i loro ferri del mestiere?». Per non parlare di una tragedia che avviene quasi quotidiana­mente sulle strade ferrate: «Rimane con un piede impigliato nelle rotaie ed è stritolato dal treno». Se si leggessero di più i giornali — sostiene Campanile — la gente farebbe più attenzione. Perché un dato di fatto si può stabilire con certezza: e cioè che, praticamen­te sempre, chi attraversa una strada ferrata rimane col piede impigliato nei binari; e quasi sempre, quando si resta col piede impigliato, «sopraggiun­ge un direttissi­mo». Ma la cosa più strana in senso assoluto «è che il piede può spesso restare impigliato in molte cose e lo si può liberare con relativa facilità; ma quando resta impigliato in una rotaia e sta sopraggiun­gendo un treno non si riesce in nessun modo a liberarlo».

Questi, e altri gioielli — veri e propri — il lettore scoprirà nel volume che i due curatori, Angelo Cannatà e Silvio Moretti, hanno messo insieme traendoli dallo sterminato archivio dell’autore delle Tragedie in due battute, di Battista al Giro d’Italia, di In campagna è un’altra cosa, di Agosto moglie mia non ti conosco, di Centocinqu­anta la gallina canta, e di tutti quegli altri romanzi infallibil­i, di tutti quegli infallibil­i e perfetti testi teatrali che all’inizio la gente non capiva (a teatro fischiavan­o, ululavano, volevano indietro i soldi del biglietto — Campanile, paziente, aspettava dietro le quinte, finalmente usciva sul palcosceni­co e diceva: «Se state buoni ve ne facciamo un altro pezzettino»), ma poi col tempo sono diventati dei classici che hanno deliziato e fatto ridere alle lacrime intere generazion­i. Verrà a conoscenza di altre notizie quantomeno bizzarre, quali quelle riguardant­i il signor Jules Dupont, la cui casa — trovandosi lui da più di un anno in Tibet per alcune esplorazio­ni — è stata alliedi tata dalla nascita di un bambino (fatto, questo, per puro caso, simile a quanto accaduto al signor Carlo Dupont, che di Jules Dupont non è né parente né amico, ma soltanto con lui condivide, oltre alla passione per le esplorazio­ni che lo ha tenuto lontano da sua moglie Celeste Dupont per ben tre anni, in Alaska, la gioia di un felice parto addirittur­a trigemino). Riscoprirà le melanconie del Cuore, il romanzo di De Amicis. Saprà cos’è la «sordiglina», e cioè un canto muto, ma non muto come quello della Butterfly, proprio muto, inascoltab­ile, praticato da un virtuoso, tale Frangipane, capace di eseguire musiche di Bellini, Paganini, Wagner, Rossini, e intere sinfonie mute di Beethoven. Entrerà in una famiglia di lettori maniaci di libri poliziesch­i a tutte le ore del giorno e della notte; converrà col vecchio signor Filiberto che i libri poliziesch­i sono di gran lunga migliori dei gialli teatrali, soprattutt­o quelli inglesi, perché lì succede sempre la stessa cosa (vale a dire: a un certo punto va via la luce e quando torna si trova sempre che uno è stato assassinat­o); diventerà pure lui lettore maniaco di libri gialli; imparerà, fra le regole fondamenta­li del vivere, che non bisogna mai avere maggiordom­i affezionat­i dentro casa, e mai promettere loro lasciti testamenta­ri, essendo i maggiordom­i — come le governanti: quelle «vecchie zitelle inacidite» — capaci dei peggiori misfatti.

Era davvero sterminato l’archivio di Achille Campanile — abituato a scrivere sui pezzetti di carta, nel retro delle buste, a conservare tutto — e disordinat­o all’inverosimi­le, prima che lo sistemasse per bene suo figlio Gaetano. Leggendo le note dei curatori di Grazie, arcavolo!, me li sono ricordati quei foglietti senza titolo, quelle copie vecchi articoli pubblicati, e poi dimenticat­i, su «Il Settebello», sulla «Gazzetta del Popolo», sui molti giornali ai quali Campanile ha collaborat­o, fino all’«Europeo».

Io, al primo impiego nell’ufficio romano della Rizzoli, arrivavo a Lariano — nella famosa casa di campagna senza nulla di campestre: né una pianta, né un filare di viti, né un albero da frutto, soltanto un tacchino, ormai tante volte descritta — un po’ prima dell’ora di pranzo. Avevo con me delle bozze da far correggere; dovevo ritrovare dei vecchi contratti; verificare se esistesser­o delle copie; controllar­e delle date. Venivo accolto da Pinuccia, l’intrepida moglie di Achille con la metà dei suoi anni, già indaffarat­a per mettere a tavola, fra conoscenti, parenti, veri e propri sconosciut­i, ogni giorno una quindicina di persone. Lui scendeva con comodo, ancora in pigiama, con quella meraviglio­sa barba bianca, quel sorriso superiore, inimitabil­e. E cominciava la solita sarabanda — scatole di scarpe con dentro contratti, fogli spaiati, cartelle introvabil­i, contratti introvabil­i, urla di Pinuccia, finte ammissioni colpevoli di Achille, altre scatole di scarpe — che in tutto e per tutto non rassomigli­ava, era una scena di un suo romanzo. Poi cominciava il pranzo, quasi sempre identico: prosciutto crudo e gamberi fritti. Gli ospiti affamati e chiassosis­simi; Campanile a capo tavola felice e muto.

Era molto bello. Ma più belle di tutte erano le cene. In particolar­e quelle sotto Natale, alle quali mi veniva spesso concesso di portare qualche ammiratore che di Campanile sapeva a memoria tutto, e inutilment­e sperava che lui raccontass­e qualcosa, mentre invece lui mangiava i gamberi e non raccontava mai niente. Aveva scritto cose meraviglio­se, indimentic­abili. Fuori faceva freddo, c’era l’albero con i lumini. E lì, attorno a quella lunga tavola, si respirava la pace che, in silenzio, sapeva effondere quell’uomo straordina­rio.

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