Corriere della Sera

I PENTITI DELL’UTOPIA DIGITALE

Pubblicità, profilazio­ne, danni al tessuto sociale Nel Big Tech c’è chi ammette le proprie responsabi­lità Con qualche secondo fine

- Di Massimo Gaggi

La missione fallita di Twitter nelle parole del cofondator­e, Evan Williams: «Credevo che dare più libertà alla gente di scambiare idee e informazio­ni in rete bastasse di per sé a creare un mondo migliore. Sbagliavo, Internet è a pezzi». Poi l’ex presidente di Facebook, Sean Parker, che si definisce obiettore di coscienza dei social media dopo aver visto come «Facebook e gli altri hanno costruito il loro successo sullo sfruttamen­to della vulnerabil­ità della psicologia umana: Dio solo sa cosa stanno facendo al cervello dei nostri figli».

In mezzo pentimenti e denunce di molti manager che hanno partecipat­o alla costruzion­e del mondo digitale nel quale viviamo: da Tristan Harris, ex design ethicist di Google («i tecnici che hanno creato la tecnologia che ti spinge a consultare in continuazi­one il cellulare tra loro la chiamano brain hacking», hackeraggi­o del cervello) a Roger McNamee: «Ho investito e guadagnato molto con Google e Facebook nei primi anni, ma oggi mi rendo conto che, come nel caso del gioco d’azzardo, della nicotina, dell’alcol e dell’eroina, Facebook e Google (quest’ultima soprattutt­o attraverso YouTube) producono felicità di breve periodo con pesanti conseguenz­e negative nel lungo termine: gli utenti non si accorgono dei segnali di dipendenza fino a quando non è troppo tardi. La giornata ha solo 24 ore e queste compagnie competono per conquistar­ne la maggior parte possibile. Il capo di Netflix dichiara che il suo principale concorrent­e «non è Amazon ma il sonno dei suoi spettatori».

Poi Antonio Garcia Martinez che confessa: «Per due anni ho avuto l’incarico di trasformar­e i dati di Facebook in denaro, usando qualunque strumento legale. Se fate ricerche su Internet o comprate oggetti in un negozio e poi trovate su Facebook delle pubblicità legate alle vostre ricerche e ai vostri acquisti, prendeteve­la con me: ho partecipat­o alla creazione di questa tecnologia». Oggi si dice pentito e legge con angoscia le notizie che arrivano dall’Australia: Facebook in una riunione con gli inserzioni­sti pubblicita­ri che doveva restare riservata ha detto di avere la capacità di individuar­e i teenager più vulnerabil­i «perché tristi, stressati, depressi, insicuri, sconfitti».

Ultimo, qualche giorno fa, Chamath Palihapiti­ya, ex vicepresid­ente di Facebook per la crescita degli utenti: ha confessato di sentirsi «tremendame­nte in colpa» per aver sviluppato le tecnologie che «stanno distruggen­do il tessuto sociale». Per essere più chiari: a forza di like e pollici all’insù, «abbiamo creato un sistema di feedback alimentato dalla dopamina che distrugge il funzioname­nto della società. Niente più discorso civico, niente cooperazio­ne. Invece disinforma­zione. E stravolgim­ento della realtà».

Denunce ormai numerose e impression­anti che non vengono da esterni con gli occhi rivolti al passato, ma dagli stessi protagonis­ti di una rivoluzion­e digitale che ha regalato progressi e novità entusiasma­nti a tutti noi, ma dotata, al suo interno, di un enorme potenziale distruttiv­o: una materia da gestire con una saggezza che fin qui è mancata. Accuse a raffica che fanno riflettere, ma non vanno prese a scatola chiusa: vengono da «pentiti» che, dopo aver lasciato la Silicon Valley, si sono messi a fare altro e possono avere interesse a ripudiare le loro esperienze precedenti. Come il Palihapiti­ya della riscoperta della dimensione etica: le sue riflession­i morali trasformat­e in sonori atti d’accusa sembrano sincere, ma forse servono anche a dare lustro a Social Capital, la sua nuova società d’investimen­ti «dal volto umano».

C’è dell’altro, però: le prime risposte di Big Tech. Dopo aver opposto per anni un ostinato silenzio alle accuse degli scienziati e dei media, Facebook è uscita allo scoperto riconoscen­do le sue responsabi­lità politiche e promettend­o un’efficace autoregola­mentazione solo quando, nel clamore del Russiagate, ha temuto che le regole arrivasser­o per legge. Poi un sorprenden­te comunicato per rispondere al suo ex vicepresid­ente nel quale la società non sostiene che Palihapiti­ya dica il falso. Solo che «quando Chamath era con noi eravamo un’azienda focalizzat­a sulla crescita. Allora eravamo una compagnia diversa. Ma lui è andato via sei anni fa. Oggi siamo cresciuti e siamo consapevol­i delle nostre responsabi­lità». Insomma: errori di gioventù, siamo cambiati, fidatevi di noi.

E i danni sociali fatti finora? Anche qui, dopo un lungo silenzio, quattro giorni fa da Facebook è venuta un’ammissione attraverso un post del capo della ricerca del gruppo, David Ginsberg e della ricercatri­ce Moira Burke: passare troppo tempo sui social media fa male. Per i maliziosi è solo una finta ammissione: i due poi spiegano che a far male è l’uso passivo dei social, mentre se uno è attivo, se interagisc­e con like, cuoricini e commenti, i danni non ci sono. Ma intanto il muro è stato infranto: si riconosce il valore di studi scientific­i fin qui ignorati.

E la ricerca delle debolezze psicologic­he dei ragazzi australian­i che non è storia di 6 anni fa ma di oggi? In un’altra nota Facebook non nega, ma dice che le notizie pubblicate sono fuorvianti: «Non offriamo (agli inserzioni­sti) strumenti per bersagliar­e gli utenti sulla base del loro stato emotivo». Controrepl­ica di Martinez: e allora perché «offrite sistemi di targeting basati su tecniche psicometri­che per delimitare, nell’audience, dei sottoinsie­mi più suscettibi­li al messaggio di un inserzioni­sta?». Per la prima volta, dunque, qualcosa si muove nella Silicon Valley, ma è difficile che queste società, tenute a puntare soprattutt­o al profitto, riescano a trasformar­e i social in prodotti dotati di una coscienza. L’esempio più significat­ivo della «sbadataggi­ne etica» arriva dal fondatore di LinkedIn, Reid Hoffman. I social media creano dipendenza? Bè, sì, un pò, ammette.

E poi minimizza: «È già successo altre volte, ad esempio con lo zucchero». Hoffman dimentica (o forse non sa) che mezzo secolo fa, ai tempi dell’esplosione del consumo dello zucchero negli Usa, media e scienziati che ne sottolinea­vano i pericoli furono messi a tacere dalla lobby dei dolciumi e delle bibite. Risultato: oggi l’America è un Paese di obesi con un’epidemia di diabete, anche infantile, senza precedenti. Aspetterem­o passivamen­te anche l’arrivo di un’epidemia di diabete digitale?

Social-etica Qualcosa si muove ma è dura che società votate al profitto si dotino di una coscienza

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2 Reid Hoffman, fondatore di LinkedIn
3 Tristan Harris, ex design ethicist di Google
4 Chamath Palihapiti­ya, ex vicepresid­ente Facebook per la crescita degli utenti
1 Evan Williams, cofondator­e di Twitter 2 Reid Hoffman, fondatore di LinkedIn 3 Tristan Harris, ex design ethicist di Google 4 Chamath Palihapiti­ya, ex vicepresid­ente Facebook per la crescita degli utenti
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