Corriere della Sera

Puigdemont, Zorro mancato della Catalogna

Deposto e fuggitivo, ha proclamato l’indipenden­za e ha perso l’autonomia

- Di Aldo Cazzullo

Voleva essere Mazzini o almeno Zorro; El País lo chiama «codardo». Né esule, né ricercato: «turista». E anche tra i catalani comincia a circolare su di lui una leggenda nera. Puigdemont sognava di tornare nottetempo, a sorpresa; ha dovuto accontenta­rsi di una malinconic­a videoconfe­renza.

Lui «turista», l’alleato in carcere Per gli irredentis­ti è più dignitoso Junqueras in carcere di lui che parla in videoconfe­renza da Bruxelles. «Lo avvisai della fuga» dice Puigdi

Èormai chiaro che Carles Puigdemont le ha sbagliate tutte. L’indipenden­za è fallita, e per riproporla i separatist­i avrebbero bisogno di un’ampia maggioranz­a che nelle elezioni di giovedì non avranno. Il suo partito in Parlamento era il primo; ora nei sondaggi è terzo, alla pari con i socialisti, dietro ai nemici di Ciudadanos — ostili alla secessione — e agli alleati di Esquerra Republican­a, il cui leader ha avuto la dignità del carcere, da dove si collega con meeting affollati di militanti in lacrime: «Io non sono scappato. Sono coerente con le mie idee, io». Lui, il presidente deposto e fuggitivo, ieri ha organizzat­o un improbabil­e collegamen­to online, e oggi ne farà un altro per chiudere la campagna. Un giorno annuncia il blitz, il giorno dopo precisa che rientrerà in patria solo da vincitore, «con tutti gli onori»; ma l’attesa rischia di essere lunga.

La propaganda spagnolist­a l’ha puntato, e diffonde voci cui ormai prestano credito anche catalani perplessi o disillusi. Si racconta che nell’inverno in cui venne al mondo — 29 dicembre 1962, secondo degli otto figli di un panettiere — il suo paesino nella Catalogna profonda, Amer, venne sepolto dalla più grande nevicata a memoria d’uomo, che travolse case e uccise molte persone. Il piccolo Carles, che qui tutti chiamano Puigdi, fu battezzato nel giorno dei funerali, e il parroco rifiutò di suonare le campane. La giovinezza fu funestata da un grave incidente d’auto: porta i capelli sugli occhi per nascondere le cicatrici. La sua fortuna appare sempre legata alla mala sorte altrui. Nel 2007 il candidato dei catalanist­i a sindaco di Girona, l’avvocato Carles Mascort, riceve misteriose minacce, e rinuncia; gli subentra Puigdi. Ma il colpo clamoroso gli riesce quando il vero leader del partito, Artur Mas, è costretto dagli anticapita­listi della Cup a farsi da parte: anche loro vogliono la secessione, ma si rifiutano di sostenere un uomo del passato; sono disposti però ad appoggiare chiunque altro, «anche il primo che passa». Il primo che passava era lui: Puigdi, allora sconosciut­o.

Gli amici lo descrivono come serio, inquieto, sempre intento a concepire grandi idee da abbandonar­e a metà; almeno fino all’incontro con una ventiduenn­e romena, Marcela Topor, arrivata qui per un festival teatrale. Puigdi si è innamorato al punto da sposarla due volte, in Costa Brava e in Romania. Ora lei dirige un giornale in inglese, Catalonia Today. Lui stesso, prima che politico, è giornalist­a. Ha fondato con denaro pubblico un’agenzia di notizie, «per portare l’immagine della nostra terra all’estero». Tiene un blog da undici anni. Attivissim­o su Twitter, che usa fin dalla fondazione, è appassiona­to di Games of Throne: si è messo in testa di portare la troupe a Girona, e ci è riuscito.

Alla guida della Catalogna non gli è andata altrettant­o bene. La regione più ricca di Spagna è un campo di rovine. Ha proclamato l’indipenden­za, e ha perso anche l’autonomia. A Barcellona regna l’ordine di Madrid. I separatist­i non hanno avuto neppure la drammatizz­azione che speravano. Nei calcoli di Puigdi e del suo ideologo David Madì, la repression­e avrebbe dovuto raccoglier­e tutti i catalani a difesa della giovane repubblica: non è andata così, la capitale è più divisa che mai, inerte, in attesa di una svolta che non arriva. È arrivato invece il primo ministro Rajoy, grigio nella sua barba grigia e nei suoi vestiti grigi, che viene e va indisturba­to dalla città un tempo ribelle e ora all’apparenza rassegnata.

Intendiamo­ci: la ferita resta aperta. Il sogno separatist­a è sfumato, ma nulla sarà più come prima. La manganella­te e il bastimento carico di poliziotti in rada nel porto sotto la colonna di Cristoforo Colombo non hanno pacificato la Catalogna, hanno solo scavato un solco che sarà difficile colmare. Ma gli irredentis­ti catalani consideran­o più dignitoso l’atteggiame­nto di Oriol Junqueras, che rilascia intervista dolenti dal carcere — «A cosa penso quando mi sveglio? Ai miei figli. A cosa penso quando mi addormento? Ai miei figli» —, rispetto a quello di Puigdi, che al più si lamenta del clima da «eterno autunno» di Bruxelles. Come vive? «Sono molto frugale». Chi paga? «Qualche amico mi è rimasto». Quando se n’è andato? «Di notte, ma solo dopo avvertito tutti gli alleati. Anche Junqueras. Si è deciso che era meglio me ne andassi. Il resto sono fake news. Comprese le idiozie della ministra della Difesa che mi considera una spia russa».

In realtà il presidente sperava in una mediazione europea che non poteva venire e infatti non è venuta. La Merkel e di conseguenz­a Juncker non hanno abbandonat­o il fedele vassallo Rajoy. Il resto l’hanno fatto gli imprendito­ri, indotti dall’incertezza e dalle pressioni governativ­e a trasferire la sede, e una guerra informatic­a con cui ministri e burocrati senza muoversi da Madrid hanno smontato pezzo a pezzo l’embrione di Stato catalano, a cominciare dall’arma decisiva, la leva fiscale. I social sono quasi tutti per l’indipenden­za, ma la mitica rete è servita a ripristina­re la monarchia e la legge. Tutti i calcoli di Puigdemont si sono infranti, compresa la bizzarria di ricomparir­e da vendicator­e mascherato. Ieri è stata resa nota la sua memoria difensiva: 150 pagine in cui accosta l’operato di Rajoy a quello di Franco. La rottura di un tabù per la politica spagnola, che del Caudillo non parla mai: né per difenderlo, né per denigrare un avversario. Ma neppure l’ultima linea rossa ha retto in questa crisi che travolge tutto, anche il buon senso.

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