Corriere della Sera

«I depistaggi sull’omicidio di mia figlia»

Guglielmo Mollicone: «Ora voglio giustizia»

- Di Fulvio Fiano

«Dopo il delitto di mia figlia ci furono delle mosse da scacchisti per depistare». Sono le parole di Guglielmo Mollicone, padre di Serena, uccisa 16 anni fa.

Venerdì, dopo 21 mesi di nuovi esami al Labanof di Milano, Guglielmo Mollicone riavrà il corpo di sua figlia Serena, uccisa ad Arce 16 anni fa, ancora oggi vittima di un delitto senza colpevoli. La verità, però, sembra a un passo. Serena, secondo l’accusa, sarebbe stata uccisa dal comandante dei carabinier­i Franco Mottola in concorso col figlio, la moglie e un brigadiere e con il favoreggia­mento di un altro che tacque la verità.

Signor Mollicone, che attesa è la sua?

«Sarà un’emozione riavere Serena vicino. Ventuno mesi sono lunghi senza tua figlia, anche se è morta. Una mancanza fisica e nei comportame­nti, come non poterle portare i fiori al cimitero».

Ha mai avuto voglia di dimenticar­e?

«Mai. E non lo farò finché non avrò giustizia. Possono fermarmi, ma nella tomba continuere­i a rivoltarmi».

Quando sarà chiusa per lei questa storia?

«Quando ci saranno le condanne, che devono essere esemplari. Parliamo di graduati, ancora in servizio, che scelgono di non rispondere ai magistrati. Ma dai vertici dell’Arma ho sempre avuto vicinanza e solidariet­à».

Che cosa manca per arrivare alla verità?

«Dopo il delitto ci furono delle mosse da scacchisti per depistare. Marco Malnati, il compare del brigadiere Santino Tuzi (suicida nel 2008 dopo aver testimonia­to la presenza di Serena in caserma, ndr) disse di aver saputo da lui che Mottola, la notte della veglia funebre, entrò in casa mia per lasciare il telefonino di Serena. La sua testimonia­nza è sparita, Malnati non ha più parlato per paura, ma di quelle frasi, ripetute al funerale di Tuzi, c’è ancora traccia in una tv locale».

Possibile che ci fosse una così forte intimidazi­one?

«Paura ne ho anche io. Non di morire, però, perché la mia vita è finita con Serena, ma di non poter dire chi l’ha uccisa».

Al funerale venne chiamato in caserma. Perché?

«Mi convocaron­o per firmare il verbale di ritrovamen­to del telefonino. Restai tre ore sulla stessa panca dove aspettò mia figlia e l’unico motivo, l’ho capito poi, era far vedere a tutti che non ero in chiesa, alludendo a chissà quale mistero».

Perché Serena andò in caserma?

«Per denunciare il figlio di

Mottola, Marco, che faceva lezioni private di francese da me e andava a scuola con Serena. Si conoscevan­o, nessuna storia come è stato scritto, ma lei sapeva che lui spacciava».

Ne è certo?

«Serena me lo disse un giorno a tavola. Aveva anche avvertito Marco, tanto che suo padre, il maresciall­o, la diffidò in piazza davanti a tutti. Lei mi disse: “Mottola pensi a suo figlio, piuttosto”. E Serena dava sempre seguito alle sue parole. Oltre alla testimonia­nza di Tuzi e al nome poi cancellato sul registro degli ingressi, c’è il verbale di una donna delle pulizie che la vide in sala d’attesa e sentì una voce chiamarla negli alloggi del comandante».

Chi era sua figlia?

«Una ragazza comune con un grande desiderio di aiutare gli altri. Aveva 18 anni, era un’idealista, generosa, non si preoccupav­a delle conseguenz­e. Oggi

sarebbe una veterinari­a o una giornalist­a, magari disoccupat­a, ma sempre uguale. Non voglio santificar­la, solo far chiarezza su tante voci».

Arce è cambiata?

«C’è un prima e dopo l’omicidio. Era un posto dove si moriva per overdose e con tante amicizie e interessi inconfessa­bili. In questo senso, quello di Serena è stato un sacrificio che oggi ha riportato pulizia e tranquilli­tà. Merito anche del nuovo comandante, Gaetano Evangelist­a, e del procurator­e capo, Luciano D’Emmanuele, che hanno riaperto le indagini».

In questi anni ha avuto più paura della verità o di non poterla avere?

«Quello che è successo non si può cambiare. Ma deve essere il punto di partenza per arrivare in fondo. Lo dobbiamo a Serena e grazie a Dio ci stiamo riuscendo».

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