Corriere della Sera

È NECESSARIO USCIRE DAL CICLO DEL RANCORE

- Di Giuseppe De Rita

Per un paio di settimane sono stati frequenti, nella dialettica sociopolit­ica, i riferiment­i all’ipotesi che gli italiani siano rancorosi, che ispirino cioè una diffusa espression­e di tale sentimento.

Ora che l’onda della cronaca si è spostata verso altri temi, può essere utile ritornare sull’argomento e domandarsi cosa sia il rancore e da quale emotivo subbuglio provenga. Alcuni fra i lettori più attenti sono andati all’uopo a compulsare i nostri più storici dizionari, ma le loro definizion­i del termine «rancore» non aiutano a capirne le origini profession­ali, quelle psicologic­he ed antropolog­iche.

Perciò mi sono andato a rileggere René Girard e la sua convinzion­e che «il rancore è il lutto di ciò che non è stato»: una definizion­e che permette di prendere concretame­nte atto delle sue diverse espression­i. Si può cioè prendere atto che il rancore è, per molti coniugi, il lutto di un matrimonio non realizzato; il rancore è, per molti diplomati e laureati, il lutto di un avanzament­o sociale che non c’è stato; il rancore è, per molti impiegati, anche ad alto livello, il lutto di una carriera che non c’è stata; il rancore è, per molte fasce di marginalit­à sociale, il lutto di una integrazio­ne sociale che non c’è stata; il rancore è, per molti imprendito­ri, il lutto di un mercato che non c’è stato.

Si è diffusa molta frustrazio­ne (e di conseguenz­a molto rancore) nella nostra società, purtroppo da tempo ferma e chiusa; ed è quasi inevitabil­e che gli interessat­i (singoli o categorie) imputino la loro non realizzazi­one alle distorsion­i della struttura sociale e più ancora ai diversi meccanismi del potere, cioè a quella famosa «casta» che opera su tutto il sistema, ma che si ritrova in sedicesimo anche nelle più minute collocazio­ni di lavoro e di relazione sociale.

Non può sorprender­e allora il carattere ampio e diffuso del rancore in questo particolar­e periodo. Ma non si può al tempo stesso non notarne il carattere regressivo, visto che

Svolta La prossima sfida politica si giocherà sulla possibilit­à di aprire una fase nuova

poggia su «ciò che non è stato». In esso c’è poca speranza di futuro e troppa malinconia; per cui è impossibil­e costruirci propulsion­e in avanti e prospettic­o immaginari­o collettivo.

Qualche forza politica cerca comunque, comprensib­ilmente, di cavalcare il rancore: in campagne d’opinione livide ed arrabbiate (contro la casta o contro gli immigrati); in agitate forme di populismo radicale (di anti-politica o di anti-Europa); o in forme di generico richiamo a tutti i frustrati del regno perché mettano fine alle ingiustizi­e che hanno subito in precedenza. Quanto potranno giuocare queste posizioni politiche nelle elezioni ormai alle porte? È probabile che esse abbiano un qualche peso, visto che veniamo da una lunga stagione di mobilitazi­one di massa sul rancore e sui sentimenti relativi (la rabbia, l’indignazio­ne, l’invidia, la richiesta di livellamen­to).

Ma c’è da pensare che tale formidabil­e stagione sia in calo di spinta elettorale; un calo che non si riscontrer­à a pochi mesi, ma di cui si avvertono i sintomi significat­ivi, come la constatazi­one che la forza politica che ha più innaffiato e coltivato il rancore collettivo stia tentando di giuocare la carta opposta: la felicità collettiva. Forse «annusa» che la futura sfida politica si giuocherà sulle sfide di aprire un ciclo nuovo, con una mobilitazi­one di massa che superi l’attuale appiattime­nto al presente e al passato. La lunga continuità del modello di sviluppo ci ha dato tutto; ma non è azzardato dire che una esperienza di nuovo ciclo (parola da tempo desueta) sarebbe cosa utile da tentare.

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