Corriere della Sera

Senza un piano di pace anche un gesto giusto può diventare l’opposto

Indignazio­ne assurda, ma Trump fa un calcolo politico

- di Bernard-Henri Lévy

Gerusalemm­e è chiarament­e, e da sempre, la capitale di Israele. Avverto tuttavia qualcosa di assurdo, e anche di scandaloso, nell’indignazio­ne planetaria suscitata dal riconoscim­ento, da parte degli Stati Uniti, di questa evidenza. Da dove scaturisce allora il mio disagio? E due settimane dopo questo annuncio che aspettavo anch’io, e da parecchi anni, come mai mi sento stringere il cuore da una morsa di inquietudi­ne?

Trump, innanzitut­to. È troppo facile attribuire la dichiarazi­one al suo carattere opportunis­tico, quando, messo alle strette da varie sconfitte consecutiv­e, ecco che decide di calare il suo asso per coronare la fine del primo anno di mandato presidenzi­ale. Un amico degli ebrei, è così che si definisce? Paladino e santo patrono di Israele? Scusate, ma io non ci credo affatto. Non penso assolutame­nte che Trump abbia voluto riconoscer­e l’esistenza di un sacro connubio tra l’America e Israele, tra la nuova e l’antica Gerusalemm­e. Non credo che l’animo di Trump sia propenso, in alcun modo, a esaltare la specificit­à ebraica, a celebrare i paradossi del pensiero talmudico o il gusto dell’avventura che infervorav­a le gesta ardenti, liriche ed eroiche dei pionieri laici del sionismo. E non credo neppure che i famosi neo evangelici che compongono, a quanto pare, le schiere dei suoi elettori più fedeli, abbiano la più pallida idea di cosa sia, in realtà, questo Stato cantato dai poeti, costruito dai sognatori e inseguito ancora oggi, con il medesimo afflato o quasi, da un popolo la cui narrativa nazionale è ricca di miracoli razionali, di speranze sotto il cielo stellato e di slanci logici.

E allora? La storia ci insegna che un gesto di amicizia astratto, insincero, slegato dall’Idea e dalla Verità, amputato da quella conoscenza e da

Spirito da conservare Non si può non amare questa città, la sua avventura temeraria, il suo universali­smo

quel profondo amore che si chiamano, in ebraico, «ahavat Israel», in fin dei conti non vale poi gran che — o, peggio, la storia ci insegna come, proprio a causa dell’origine tossica delle febbri politiche di cui il popolo ebraico ha dovuto sopportare sin troppo spesso le conseguenz­e funeste, c’è il rischio che questo gesto, un giorno, si trasformi nel suo opposto. Per non parlare, poi, della precarietà di Israele.

Io lo amo, questo paese. Conosco (un po’) e amo (infinitame­nte) la sua avventura così temeraria e bella. Amo il suo universali­smo recalcitra­nte. Amo, nei suoi abitanti, che portino o meno il capo coperto, che siano lettori di Appelfelt, Yehoshua e Amos Oz oppure, al contrario, del luminoso Rav Aaron Steinman, scomparso lo scorso 12 dicembre all’età di 104 anni, in ognuno di essi io ammiro la forte convinzion­e di lavorare per l’umanità e di contribuir­e al progresso umano grazie alle loro invenzioni e ai loro studi. E amo, ovviamente, Gerusalemm­e. Amo questa città plurimille­naria, questa città di Giacobbe e di Melchisede­ch, re di Salem, questa città di Hillel e Shammai, questa città di Gesù, questa città di rabbini scacciati da Roma che vagabondan­o tra le sue rovine. Ma conosco anche molto bene la sua precarietà. So benissimo che aleggia su questa città un destino sospeso, fatto di poesia, nobiltà e catastrofe.

Non credo che un colpo di dadi né un poker politico, non credo che un riconoscim­ento diplomatic­o mal congegnato, non negoziato e avulso da ogni tentativo di pace globale e giusta sia in grado di rafforzare ciò che resta, a mio avviso, l’essenziale: la legittimit­à di Israele, a fianco del futuro stato palestines­e, su una terra alla quale la memoria storica del suo popolo, i suoi sospiri e preghiere lo avevano destinato da secoli ma dove esso dimora, ancora oggi, così tremendame­nte vulnerabil­e. Il mio pensiero corre, stamattina, agli uomini che quasi settant’anni fa, appena dopo la fine dell’orrore, hanno saputo reinventar­e, le armi in pugno, lo «stato degli ebrei». Penso ai fuggiaschi dall’Europa viennese o berlinese che hanno giurato «mai più». Penso a quei rifugiati famelici, sfuggiti ai ghetti e alle yeshivah di Polonia e Lituania, che seppero trasformar­si in costruttor­i di città. Penso ai nuovi migranti che fuggono, in questo primo scorcio del ventunesim­o secolo, dai territori ed ex colonie delle repubblich­e europee. Penso a questo paese sempre isolato che combatte ogni giorno contro la sua solitudine. Ha forse riflettuto a tutto questo il presidente Trump, quando ha messo mano al dossier «Gerusalemm­e»? Ha pensato ai figli di Israele, cui è stato concesso appena l’arco di una sola vita umana per riprendere fiato e resistere? È a loro che va il mio pensiero questa mattina. È per questi figli, che io tremo in questi ultimi giorni dell’anno. Sarebbe stato infinitame­nte meglio calare questa carta vincente — la decisione di riconoscer­e Gerusalemm­e come capitale — all’interno di un vero piano di pace, il solo in grado di garantire l’inalienabi­le diritto di questo paese all’esistenza e alla sicurezza. Ma il 45° presidente degli Stati Uniti non se n’è curato minimament­e: mirava alla spacconata politica, non a scrivere la Storia. ( traduzione di Rita Baldassarr­e)

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Al palazzo di vetro Il momento del risultato all’Assemblea di ieri delle Nazioni Unite, quando la stragrande maggioranz­a dei paesi ha approvato la condanna degli Usa

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