Corriere della Sera

«Io e l’Himalaya, che sa come punirti»

Lo scrittore Cognetti in Nepal: fatica e spirituali­tà, a commuoverm­i è la doccia calda

- di Roberto Iasoni

«Epoi, al quindicesi­mo giorno, quando ti illudi di essere stato accettato, la montagna punisce la tua arroganza». Paolo Cognetti racconta il suo viaggio nelle regioni più impervie del Nepal, sulla catena himalayana. Un cammino tra le vette di trecento chilometri, ventidue giorni di fatica e meraviglie. «Finito il viaggio, alla prima doccia, con l’acqua calda, mi sono commosso».

«Epoi, al quindicesi­mo giorno, quando ti illudi di essere stato accettato, la montagna punisce la tua arroganza». Il vento è gelido. Nelle gambe ha 1.400 metri di dislivello e quattro ore di salita, non sta più in piedi, non riesce a parlare. È a quel punto che Paolo Cognetti si chiede: ma che ci faccio qui?

Qui, cioè: nel vuoto che risuona di echi indecifrab­ili tra Dho Tarap e Kagbeni. Nella regione più selvaggia del Nepal, il Dolpo. A Nord della catena himalayana. Ottomila chilometri quadrati, meno di tremila abitanti. Tibetani per lingua, cultura e religione, ma cittadini nepalesi. Un fossile vivo, scampato all’invasione cinese e rimasto sospeso nel suo tempo scandito dall’inseguirsi selvaggio del giorno e della notte. Lo scrittore milanese autore del caso editoriale dell’anno, Le otto montagne, è partito all’inizio di ottobre con Stefano Torrione, fotografo, e Nicola Magrin, suo l’acquerello sulla copertina del romanzo. Il racconto dei 22 giorni di fatica e meraviglia, 300 chilometri di sentieri, otto Passi oltre i 5.000 metri, è ora in edicola, nel bimestrale Meridiani-Montagne. Cognetti, che ci faceva là?

«Cercavo un’autentica civiltà di montagna, e forse volevo anche tornare ad assaporare la vita. Finito il viaggio, alla prima doccia, con l’acqua calda, mi sono commosso».

In tenda rileggeva «Il leopardo delle nevi», di Peter Matthiesse­n.

«Cerco una lingua che racconti il paesaggio, non come sfondo, ma come presenza che entra nelle storie. Pochi narratori ci riescono. Matthiesse­n trova parole per dire l’inspiegabi­le. Ci riescono anche Chatwin, Hemingway, la Blixen. Tra gli italiani, Primo Levi e Mario Rigoni Stern». Che cosa le ha lasciato il Nepal?

«Il desiderio di dare una mano. È un Paese povero che si sta urbanizzan­do precipitos­amente, con tutte le conseguenz­e. Per non parlare del terremoto e dei monsoni. Ho visitato due strutture a Katmandu: Casa Nepal, per le donne vittime di violenza, e Sanonani, una casa-famiglia per orfani. Ho in mente qualche progetto».

Torniamo al mal di montagna: ha sofferto molto?

«L’ho scoperto a otto anni sul Monte Rosa, lo conosco. Mi dà una fortissima nausea, inappetenz­a, debolezza. I rimedi sono tanta pazienza, per acclimatar­si con gradualità, e bere molto».

Scrive: «È la nostra presenza il più grande inquinamen­to». C’è un senso di colpa?

«In quella povertà noi troviamo una ricchezza che sentiamo di aver perduto. Ma se chiedi agli abitanti del Dolpo che cosa desiderano ti senti rispondere strade, macchine, turisti. Non abbiamo il diritto di provare nostalgia per la loro povertà. Un montanaro una volta mi ha detto: quando la strada arriva sembra che porti qualcosa, invece poi scopri che porta via. Più che giudicare, bisogna comprender­e e mediare».

Scrivere e camminare: c’è una relazione?

«Sì: entrambe sono ritmo ed esplorazio­ne. Ma il libro può non portare da nessuna parte, se è un pessimo libro, mentre il cammino ha sempre un punto d’arrivo interessan­te».

Quaderno o computer?

«Prima il quaderno: nello zaino è più pratico. Poi il computer: non per mettere in bella, ma per rielaborar­e».

Ci parla della sua baita?

«Ce l’ho in affitto da dieci anni: è piccola, 5 metri per 5, a quota 1.900, in alta Val d’Ayas. La abito dall’inizio della primavera alla fine dell’estate. D’inverno il pascolo si trasforma in una pista da sci... È l’unica baita abitabile, le altre tre — i miei fantasmi — sono ruderi. Ho sempre sognato di mettere a posto il villaggio e quest’anno, con i guadagni del libro, ho comprato la stalla, voglio trasformar­la in rifugio. Vicino c’è un bosco di abeti e larici, da cui partono i sentieri che vanno a 2.500 e 3.000 metri. Esco di casa, in un paio di ore sono su».

Scrive: «Qualcosa negli uomini ti respinge, quando non li vedi per un po’, comincia a sembrarti tutto più bello». Meglio la solitudine?

«Vivo con un cane, Lucky. Federica, la mia compagna, passa l’estate con me. In agosto arrivano gli amici. Tanti. Non sono un eremita».

Nel Dolpo ha incontrato la cagnolina Kanjiroba.

«La penso come incarnazio­ne dello spirito del luogo, la sua presenza aveva qualcosa di spirituale. Ma qui andiamo su un terreno delicato».

La spirituali­tà la mette a disagio?

«Non è questo. In Nepal ho sentito che una parte sensibile di me si svegliava: è difficile dire che cosa sia. Sentivo di vivere in una diversa relazione con tutto ciò che mi circondava. Questo spirito lo puoi trovare in una montagna, nel vento, in un cane...».

È religioso?

«Ho ricevuto un’educazione religiosa, e non me ne posso liberare. Puoi ripudiare gli insegnamen­ti, non il sentimento. La mia religione ha a che fare con le montagne».

Ancora dal reportage: «Là dove arriva l’immaginazi­one c’è la strada di domani». Dove arriva oggi l’immaginazi­one?

«Ho passato gli ultimi vent’anni a scrivere. Volevo diventare uno scrittore, andavo dritto come un treno. Ora si è aperta un’età nuova, in cui sento di voler fare tanto altro. Innanzitut­to in montagna, dove ho molti progetti: il rifugio, l’Himalaya, gli altri viaggi... Non ci sono più solamente libri da scrivere».

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Paolo Cognetti, 39 anni, in Nepal
 ?? (Foto di Stefano Torrione) ?? In tenda Paolo Cognetti prima di coricarsi mentre aggiorna il diario, con testi e disegni, che ha tenuto per i 22 giorni della spedizione
(Foto di Stefano Torrione) In tenda Paolo Cognetti prima di coricarsi mentre aggiorna il diario, con testi e disegni, che ha tenuto per i 22 giorni della spedizione
 ?? (Foto Torrione) ?? In marcia Paolo Cognetti durante una delle tappe più dure: da Dho Tarap al colle Jhyarkoy, a 5.360 metri di quota, risalendo la Valle del Tahari
(Foto Torrione) In marcia Paolo Cognetti durante una delle tappe più dure: da Dho Tarap al colle Jhyarkoy, a 5.360 metri di quota, risalendo la Valle del Tahari
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