Corriere della Sera

RIFUGIATI, PECORE E BANDITI ISLAMICI LA LINEA VIRTUALE TRA NIGER E MALI

Le ultime tappe del viaggio con l’Unhcr dello scrittore Edoardo Albinati e la compagna Francesca d’Aloja

- di Edoardo Albinati e Francesca d’Aloja

Circa 11.000 i profughi maliani nel «campo» vicino alla frontiera. La registrazi­one avviene con la lettura dell’iride Sedute ordinatame­nte, le famiglie attendono il turno

Quinto giorno

Edoardo: Pare che i bambini eritrei arrivati col volo notturno da Tripoli abbiano saltato tutta la notte sul letto, svegli come grilli. Una delle ragazze evacuata dalle carceri libiche ha avuto una crisi di panico. Temeva di essere rimasta incinta e avere contratto l’Aids in prigione. Gli esami clinici hanno per fortuna escluso queste ipotesi. Ma il malessere sarà comunque difficile da curare. «Non sento più il mio corpo come una cosa mia. È come se mi avessero levato un tumore al cervello. Ecco come mi sento».

(Il primo ministro Paolo Gentiloni ha dichiarato che truppe italiane verranno presto schierate in Niger. Fino a pochi mesi fa non ne parlava quasi nessuno, del Niger, ora tutta l’attenzione è puntata qui, su questo Paese che ieri mattina il governator­e di Agadez ha detto occorre trasformar­e da «un corridoio verso l’inferno della Libia» a «un territorio di accoglienz­a e integrazio­ne». Serviranno solo soldati per ottenere questo?)

Sesto giorno

E: Partiamo presto in macchina verso Ovest, la viabile che corre a fianco al Niger e porta alla frontiera con il Mali e il Burkina Faso. La strada è quasi tutta dritta, attraversa­ta a saltelli da file di capre suicide, ciuchini, pecore bicolori e vacche dalla schiena bozzuta. Fatti poco più di cento chilometri, a Tillabery, ci fermiamo nel compound dell’Unhcr per un minimo di security briefing. In effetti il Nord del Mali è nel caos, da anni, e la frontiera col Niger, avverte con un sorriso beffardo il capo della sicurezza locale, è «poreuse», porosa, il solito eufemismo per dire che è virtuale: una linea tracciata col righello sulla mappa dell’Africa da qualche diplomatic­o europeo, un secolo fa.

Ci mostra sulla cartina tre zone contrasseg­nate a pennarello blu, che in parte si sovrappong­ono e accerchian­o Niger e Mali di qua e di là dal confine. «A Ovest stanno i Peulh», un popolo diffuso nel Sahel che durante l’esodo si porta dietro il suo bestiame, o ciò che ne resta dopo le razzie subite (più tardi, nel campo, vedremo le loro donne dal cui velo sbucano sulla fronte spettacola­ri acconciatu­re cespuglios­e). Un altro cerchio indica la minacciosa presenza di Moujao, sigla degli scissionis­ti di Al Qaeda. «E questi chi sono?», chiedo indicando il terzo anello blu, il più grande, che congiunge i precedenti. Con la miracolosa commistion­e di gravità e ironia che contraddis­tingue gli uomini d’azione qui in Niger, il mio interlocut­ore risponde asciutto: «C’est la criminalit­é…». E cosa sono peggio, scusa, i jihadisti o i banditi? Lui alza le spalle: se nel tuo villaggio piomba all’improvviso un pickup zeppo di uomini armati a sparare e saccheggia­re, le sigle perdono significat­o.

Fuori dal compound due automezzi armati con Rpg e mitragliat­rice pesante ci scorterann­o per altri 80 chilometri verso il Mali, ad Ayorou. Qui la zona è senz’altro calda, livello 4 di sicurezza su 5. Negli ultimi mesi sono stati uccisi in imboscate quattordic­i militari nigerini e quattro americani, mandati ad addestrarl­i. Ad accoglierc­i ci sono il prefetto, un Touareg dall’eloquio impeccabil­e, con la fascia del turbante incollata sul labbro inferiore, e il sindaco di Ayorou, un bellissimo e affabile uomo dagli occhi iniettati di sangue come Michael Jordan. Insieme a loro ci rechiamo a visitare la «station de pompage» che succhia e filtra l’acqua dal Niger e coi suoi grossi depositi serve sia gli abitanti locali sia la comunità di rifugiati maliani. Al fiume, dentro cui affondano le enormi tubature dell’impianto di depurazion­e, c’è il consueto festoso bordello di vacche al bagno e donne che lavano i panni e bambini che sguazzano.

Per i maliani sono state costruite quattrocen­to casette, più altre cinquanta destinate ai locali, che però un’alluvione ha parecchio danneggiat­o. Entro gennaio partirà un progetto per restaurarl­e con tetti più resistenti. Costa solo 5.000 franchi, un prezzo simbolico, circa 8 euro, avere l’usufrutto di queste abitazioni per sette anni. È previsto che i campi di rifugiati chiudano entro il 2019 integrando definitiva­mente i rifugiati nel territorio nigerino. Ci si riuscirà?

Francesca: Sono circa 11.000 i rifugiati maliani che si trovano a Tabareybar­ey, in quello che per semplicità definiamo «campo», ma la cui corretta denominazi­one è Zar (Zona di accoglienz­a rifugiati). È un territorio molto più ampio e aperto di un campo convenzion­ale, in modo che le famiglie abbiano modo e spazio per tenere presso di sé il bestiame, pecore e asini, portato dal Mali. Il protection officer locale si chiama Gambo. Un uomo calmo, gioviale, ironico, sapiente. A Niamey ci hanno detto che ogni settimana spedisce ai colleghi un messaggio augurale, una perla di saggezza. Gli chiedo se la dà anche a noi visitatori, solo per oggi, una perla tutta speciale. E lui inizia a rimuginare. Poi parte e noi dietro a lui. Gambo: fisico possente e spirito gentile. Lo seguiamo nei vari capannoni dislocati in un’area molto vasta. Cominciamo con l’ufficio registrazi­oni, un grande capannone gremito di persone che attendono di essere identifica­te e schedate attraverso il sistema biometrico che alle impronte digitali aggiunge la registrazi­one dell’iride. Sedute ordinatame­nte su panche di legno intere famiglie attendono il loro turno. Gambo ci mostra il risultato finale della procedura: una scheda dettagliat­a con i dati anagrafici completi della famiglia. Fa impression­e notare che la casella relativa all’istruzione è quasi sempre riempita dalla sigla NE, No Education. Proseguiam­o il giro stringendo mani, incrociand­o sguardi, i bambini ci corrono dietro e noi passiamo in rassegna le varie sezioni, il presidio medico, quello per i colloqui. Una mappa commovente posta al centro del campo ha assegnato a ogni settore il nome della città o della zona del Mali da cui provengono i rifugiati. Sotto un capanno all’aperto una delegazion­e di rifugiati ci attende per un colloquio.

Il primo a parlare si chiama Mahama Kaboulaba, detiene il triste record di esser stato il primo maliano ad arrivare in Niger, insieme alla famiglia, nel 2012. Dice che il campo qualche volta è stato visitato dai banditi che arrivano dal Mali: «La frontiera è molto vicina, troppo vicina…». Al gruppo si uniscono alcune donne, hanno voglia di partecipar­e all’incontro, sono anche spiritose. Chiedo a una di loro come sta, come si trova qui in Niger. «Non si possono fare paragoni con ciò che accade dall’altra parte» risponde, e sembra davvero che «l’altra parte» sia al di là di una staccionat­a, in questa terra dai confini così labili. Uomini e donne sono concordi sulla medesima aspirazion­e e cioè quella di liberarsi dal costante stato di dipendenza. «Vogliamo fare qualcosa, siamo pronti per riprendere le attività di cui eravamo capaci: cucito, pesca, lavori artigiana-

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