Piccolo manuale della nuova felicità
L’Economist non ha dubbi: è diventata un indicatore importante come il Pil. Ma dove va cercata, dentro o fuori di noi? Alcune risposte
Siamo stati felici nel 2017? E come vorremmo esserlo nel 2018? La felicità è la chiave di ogni oroscopo o augurio che leggeremo e riceveremo in questi giorni. Ma chiedersi se siamo felici e come vorremmo esserlo in futuro non è domanda semplice. La felicità è una questione complessa e il guaio è che, a forza di usarla per indicare tutto, l’abbiamo svuotata di significato: la parola tanto preziosa nella filosofia — eudaimonia — è divenuta generica, imprendibile, addirittura banale. Daniel Kahneman, premio Nobel dell’Economia 2002, è arrivato a definirla una «parola inutile»: «Tutti ne parlano, ma la prima trappola in cui cadiamo è la riluttanza ad ammetterne la complessità: la parola felicità non è più utile perché la applichiamo in troppi campi». E tutto questo proprio mentre l’Economist — il settimanale economico inglese — ha definito il 2018 l’anno in cui la felicità diventerà un indicatore importante tanto quanto quelli «classici» economici.
Ma di quale felicità stiamo parlando: di quella che dura un attimo o di quella che sa protrarsi per un tempo più lungo? Di quella che viviamo, qui e ora, o di quella di cui Prévert scriveva «l’ho riconosciuta dal rumore che faceva allontanandosi»? Di quella che si acquista mediante studio e con qualche altro tipo di esercizio — come già diceva Aristotele — o di quella che semplicemente accade, casualmente? Di quella che dipende da come stiamo «dentro» o di quella che deriva da quel che accade «fuori»? Quella fondata sul piacere o quella fondata sull’etica?
Dobbiamo restringere il campo, declinarla in termini più specifici. Forse dovremmo cominciare a parlare di felicità al plurale. La 27esima Ora del Corriere dedicherà alle felicità la festa-festival del «Tempo delle donne», il prossimo settembre, con un’inchiesta che cercherà i «nuovi nomi» per la «parola inutile» di Kahneman.
Felicità è la quieta tranquillità dell’animo che descrive Seneca, ma è anche la gioia di cui parla Eugenio Borgna (citando Rilke: «La felicità ha il suo contrario nell’infelicità, la gioia non ha contrario, per questo è il più puro dei sentimenti»), è il frutto della virtù, come dicevano gli antichi. «Aggiungerò che è essenziale il fatto di avere coscienza della propria felicità per stare bene», scrive Frédéric Lenoir in «Felicità, un viaggio filosofico» (Bompiani). Anche perché felicità è un concetto che cambia: la pozione «per sempre felici e contenti », che l’orco verde Shrek cerca di conquistare, non esiste né può esistere perché il problema della felicità è che dialoga continuamente con tutto quello che muta attorno e dentro di noi. Quella immaginata a 15 anni è diversa da quella ricercata a 50. «Abbiamo solo la felicità che siamo in grado di capire» è l’aforisma di Maurice Maeterlinck. Oggi viviamo il tempo della precarietà, quello in cui è difficile fare progetti — sia personali che professionali — a lunga scadenza. La felicità del qui e ora è la sola che sembra alla nostra portata. Una felicità «ridotta»? Una vita rassegnata ad accontentarsi di procedere senza desideri, creatività, speranza?
«Come fa ognuno di noi a scegliere in che cosa credere? L’offerta, di questi tempi, è ampia, molto più ampia che in passato», ha raccontato Paolo Giordano anticipando i temi del suo prossimo romanzo. Un’idea in cui credere: anche questo ha a che fare (e molto) con la felicità. Essere felici significa imparare a scegliere, a darsi priorità, a rinunciare a qualcosa per avere altro. Perché la felicità non è un obbligo — che fa sentire colpevole chi non la raggiunge — ma una possibilità di vita. Che tipo di felicità vogliamo e, soprattutto, cosa siamo disposti a fare per ottenerla? E ancora: felici da soli o con gli altri? Tutti — chi più chi meno — crediamo al mito dell’autorealizzazione: felicità come viaggio di scoperta di sé, piuttosto che impegno nel mondo; felicità che sottolinea l’indipendenza emotiva piuttosto che l’interdipendenza. Ma c’è un punto su cui tutti gli studi sulla natura e le cause della felicità sono d’accordo: dipende dal rapporto con le altre persone. Come ha sintetizzato il New York Times, «ricerca dopo ricerca, si mostra che i buoni rapporti sociali sono il più forte, il più costante predittore di una vita felice». La cosa più significativa che possiamo fare per il nostro benessere, dunque, non è solo «trovare noi stessi» ma coltivare le relazioni (e questo dovrebbe far riflettere su molte nuove forme di lavoro, che favoriscono l’isolamento).
Quindi cos’è la felicità? Abbiamo un anno (o meglio tutta una vita) per imparare a essere felici. Almeno un po’ e nonostante tutto.